17
maggio 1972. Il commissario Calabresi è stato ucciso.
Era
prevista la presentazione al Palazzo Reale di Milano, nella Sala
delle Cariatidi, de “I funerali dell’anarchico Pinelli”, una
imponente installazione di dodici metri per quattro realizzata da
Enrico Baj sotto l’emozione dell’oscura morte di Pinelli.
Ovviamente con un altro titolo. Era presentata in catalogo, a nome
dell’amministrazione, come «Baj, un quadro». Non era citato mai
l’episodio della morte di Pinelli se non come «...un tema di
attualità». L’inaugurazione è stata annullata in seguito alla
notizia dell’omicidio e l’opera fu censurata1.
Nessuna
altra parola sull'omicidio Calabresi. Mia madre non fa commenti sulla
sua morte. Usa una frase secca, che non lascia trasparire i suoi
sentimenti. Parla solo di una mostra alla quale forse doveva
partecipare papà. Probabilmente in un momento successivo aggiunse
con una penna rossa:
27 agosto. I neonazisti Franco Freda e Giovanni Ventura sono
incriminati dal giudice Franco D’Ambrosio per la strage di Piazza
Fontana.
In compenso ha ritagliato e incollato sulle pagine successive del tuo diario due articoli. Uno di Lotta Continua datato 18 maggio 1972 intitolato: «Ucciso Calabresi, il maggior responsabile dell’assassinio Pinelli» sul quale c’è sottolineato che l’omicidio Calabresi fu un «atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». L’altro è di “A”.
Non
mi sono accorta che nel frattempo si è fatto buio e ho mangiato
troppe olive. Ho sete. Vado a prendere un bicchiere d’acqua. Poi
però, invece di tornarmene a leggere in poltrona, mi porto i diari
in camera. Mi butto sul letto e mi fermo a guardare il soffitto.
Penso
a una recente trasmissione televisiva dedicata a Calabresi. C’era
Luca Zingaretti che leggeva alcuni brani di un libro scritto dal
figlio. Che pure era presente in studio. Ricordo di aver provato una
gran pena per lui. Ma poi mi viene in mente che niente di simile è
stato fatto per Pinelli. Anche lui è stato ammazzato. Anche lui ha
lasciato una moglie e due bambine piccole. Perché non cercare di
farsi rispiegare meglio da chi stava in quella stanza, e dagli altri
protagonisti di quella vicenda che ancora vivono, quello che avvenne
la sera di quel triste 16 dicembre 1969?
Riprendo
a leggere: «Il poliziotto dottor Luigi Calabresi, già commissario
dell’ufficio politico della questura di Milano, promosso
commissario capo dopo la strage di stato, è stato ammazzato con una
revolverata alla nuca. Questa è l’unica cosa certa, sinora.
Nessuno ha parlato di suicidio o di incidente: le versioni più
bizzarre e contraddittorie nascono solo attorno alla morte degli
anarchici. È stato ammazzato il poliziotto della Zublema, di
Pinelli, di Valpreda, di Feltrinelli ed è l’unico dato di fatto
certo. Tutto il resto è fumo, chiacchiere, isteria, congetture,
menzogne, illazioni, ipotesi. Noi non vogliamo qui esporre altre
ipotesi, ma esprimere la nostra opinione sulla vicenda con sincerità,
seppure con minore lapidarietà e completezza di quanto vorremmo, ad
evitare - se pure è possibile con i tempi che corrono - di farci
incriminare per apologia di reato. Perché è certo che se
esprimessimo apertamente quale è stata la nostra reazione emotiva
alla morte di Calabresi (e non la nostra soltanto, ma di tanti
compagni e non), troveremmo qualche maresciallo, deputato, suora di
clausura, impiegato di concetto, pensionato, casalinga,
vicepresidente RAI-TV, poliziotto, disposto ad indignarsi e a
denunciarci e qualche Occorsio disposto ad indignarsi e ad inquisirci
e qualche giudice disposto ad indignarsi e a condannarci. Così anche
se esponessimo la nostra opinione netta sull’attentato politico in
generale (che pure non è di entusiastica approvazione né di
incitamento, ma neppure di ipocrita universale condanna), troveremmo
certamente qualche zelante servitore stipendiato dallo stato disposto
a ravvisare nelle nostre argomentazioni sanguinarie istigazioni al
delitto. Partiamo dal dato di fatto che Calabresi è stato ammazzato
e che gli anarchici, i rivoluzionari, i proletari non hanno pianto.
Hanno pianto i parenti di Calabresi e del loro dolore ci spiace, ma
non più di quanto ci spiaccia il dolore dei parenti di tutte le
vittime di incidenti stradali. Certo meno di quanto ci addolori il
dolore dei parenti delle vittime della polizia, degli incidenti sul
lavoro, dei morti ammazzati nelle guerre volute dai padroni e dagli
stati... Hanno finto di piangere, ed in realtà erano spaventati, i
commissari, i questori, i prefetti, i ministri, i padroni, i quali
hanno scoperto (o riscoperto) che, se il loro sistema è (ancora)
possente e può (ancora) uccidere i sovversivi, schiacciare la
verità, tenere aggiogate le masse sfruttate, loro, gli individui,
non sono invulnerabili. Hanno constatato che, se siamo ancora lontani
dal momento in cui l’intera classe dominante sarà chiamata a
rispondere dei suoi delitti e la rivoluzione farà giustizia
distruggendo il sistema dello sfruttamento e dell’oppressione, già
ora la singola rotella dell’ingranaggio repressivo può essere
chiamata a rispondere dei suoi atti. Questa paura che abbiamo visto
negli occhi e sentito nei discorsi dei potenti e dei loro servi è
segno, a nostro avviso, che comunque sia andata la faccenda
dell’uccisione di Calabresi, provocazione o vendetta, essa ha avuto
il valore di un monito».
«Al
momento in cui scriviamo queste righe», continua l’articolo,
«quindici giorni dopo il fatto, nessuno tranne forse la polizia (e
probabilmente neppure essa) ha elementi concreti per convalidare
un’ipotesi interpretativa dell’uccisione del
commissario-finestra. Esistono solo, quindi, ipotesi “politiche”.
Così la destra dà per certo che siano state le “belve rosse” e
la sinistra parlamentare dà per certo che si tratti di una ennesima
provocazione. La sinistra extraparlamentare, da parte sua, è divisa
tra chi vede in questa vicenda la mano degli assassini fascisti di
piazza Fontana e dei loro mandanti e complici (che avrebbero voluto
in un sol colpo eliminare uno che sapeva troppo e si era bruciato ed
insieme creare una vittima da attribuire ai sovversivi) e chi senza
dubbi vede ed esalta in questo gesto una mano rivoluzionaria
vendicatrice. Noi non ci sentiamo di escludere nessuna delle due
ipotesi. Da un lato, dopo tre anni di strage continua di stato, non
ci stupirebbe più nulla e certo il momento scelto per ammazzare
Calabresi era quello politicamente meno opportuno ed è servito
egregiamente alla recrudescenza della repressione (ma la repressione
ne aveva proprio bisogno?) e ci sono, al solito, tante stranezze in
tutta la vicenda. D’altro canto non vediamo perché si debba
escludere in modo tanto reciso e solo in base a congetture politiche
(che ricalcano la traccia un po’ troppo consunta - e poco
rivoluzionaria - della provocazione nascosta dietro ogni atto
illegale) la possibilità che Calabresi sia stato ammazzato per
vendicare Pinelli. Quello che è certo è che nessuna organizzazione
rivoluzionaria, anarchica od extraparlamentare, ha progettato questa
esecuzione del commissario. Ma non basta certo questo per qualificare
di provocazione il fatto. Altro è, inoltre, dissentire
sull’opportunità politica di un gesto - che, ripetiamo, neppure
noi avremmo consigliato all’ignoto autore; altro è mettere subito
avanti le mani impaurite gridando alla provocazione. Il che,
oltretutto, non è neppure dignitoso, quando per due anni si è
gridato nelle piazze “Calabresi assassino” e “Pinelli sarai
vendicato”. Generalizzando il discorso (perché taluni
“rivoluzionari”, nella foca di allontanare da sé il sospetto di
essere se non complici almeno istigatori e corresponsabili, si sono
messi a straparlare) vogliamo poi ribadire che altro è dire che
ammazzando re, ministri, generali, eccetera non si abbatte il sistema
(ma, ci credano gli ex-parlamentari del Manifesto, neppure quegli
incolti di cose socio-economiche che sono notoriamente gli anarchici
lo pensano), altro è dire, tout-court, che sempre e dovunque
l’attentato politico sia inutile o peggio ancora provocatorio.
Andiamoci piano. Non confondiamo la tattica con la paura
ideologizzata».
Calabresi
venne ucciso a colpi di arma da fuoco davanti alla sua abitazione.
Erano le 9,15, il commissario era appena uscito di casa, in via
Cherubini, e mentre stava attraversando la strada per raggiungere la
sua macchina, una FIAT 500 blu, un uomo (secondo i testimoni oculari,
molto alto) lo ha freddato alle spalle con due colpi di pistola, uno
alla nuca e l’altro alla schiena, per poi fuggire. Chi era? Nel
1988 un ex militante di Lotta Continua, Leonardo Marino, ha
confessato la sua partecipazione all’omicidio e indica come
esecutore materiale Ovidio Bompressi, e come mandanti Adriano Sofri e
Giorgio Pietrostefani. Ai tre 22 anni di carcere. La confessione di
Marino, però, ha molti lati oscuri. Così come i processi2.
Zia
Carla, è tra coloro che non credono alla confessione di Marino. Ma
più per miseria umana del suo ex compagno che per i complotti. Fatto
sta che, i sette processi a carico di militanti di Lotta Continua,
basati sulle dichiarazioni dei testimoni oculari, non sono comunque
bastati a fugare i dubbi intorno alla confessione di Marino, a causa
di parecchie incongruenze.
Note:
1 - Ci volle parecchio tempo prima che quel lavoro durato tre anni con sagome, stracci, paillettes, passamanerie, sete e broccati venisse esposto affinché tutti vedessero il dolore di Licia Pinelli e delle figlie che si scontra con l’indifferenza dei generali, le mani contorte che si affacciano dalla finestra della questura di Milano, l’anarchico che precipita urlando nel vuoto.
2 Moltissime prove sono sparite: i vestiti del commissario Calabresi sono stati distrutti, il proiettile che l’ha ucciso è stato venduto all’asta, la macchina che era servita per l’omicidio è stata smontata perché la polizia aveva smesso di pagare il bollo. Anche le circostanze della “spontanea” confessione di Leonardo Marino sono assai sospette. Secondo quanto dice, infatti, il suo pentimento sarebbe arrivato dopo il fallimento di una rapina: prima va dal parroco del suo paese, e poi dai carabinieri. Prima, però, vuole avvertire il PCI, partito al quale è iscritto. Chiede di poter parlare con il senatore comunista Flavio Bertone. Poi, il 19 luglio dell’88, fa la confessione ufficiale. Ma durante il dibattimento emerge che Marino aveva preso i contatti con la polizia già dal 2 luglio: ci sono quindi 17 giorni di colloqui non verbalizzati che la magistratura non ha mai potuto prendere in considerazione. Poi ci sono le testimonianze di chi lo conosceva. Come quella di un suo concittadino che, prima della confessione, lo ricorda povero in canna, salvo poi riuscire a comprarsi di punto in bianco una casa a Sarzana e un camper nuovo. Cosa che non mancato di rilevare anche il parroco. Secondo lui avrebbe ottenuto dei soldi in cambio della sua testimonianza.
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