Inizia
così il diario di mia madre. Sulla copertina c’è scritto "A
come amore" e la A è quella cerchiata dell’anarchia. Mi
faccio due conti e capisco che quel giorno c’ero anche io con lei
al funerale di Pinelli. Non lo sapeva ancora, ma era incinta. Da quel
giorno la vita non fu la stessa. Né la sua, né quella di
tantissime altre persone. E neppure quella di zia Carla che studiava
Sociologia a Trento ma stava con noi a Milano quel giorno. Quel
giorno che segnò l’inizio di un’epoca buia che ancora oggi non
sembra essere del tutto terminata. Da quel 12 dicembre 1969 l’Italia
fu scossa da nove stragi, tre tentativi di golpe scoperti, la
cospirazione della politica (la Piddue), quindici anni di omicidi
politici firmati da rossi e neri, l’abbattimento di un aereo di
linea senza motivo, un’escalation di delitti mafiosi.
Zia
era arrivata a Milano direttamente da Trento. All’università
militava nel movimento studentesco di Renato Curcio, Mauro Rostagno e
Marco Boato. Entrò in Lotta Continua: prima gli avversari erano il
professore, il caposquadra, il padrone da allora il nemico divenne lo
Stato.
Di
queste cose ne abbiamo sempre parlato molto con lei. Ci ho vissuto
insieme per tanto tempo e certi argomenti spuntavano fuori ogni qual
volta si parlava di politica, ogni qual volta dovevo andare alle
manifestazioni. Ma erano discorsi astratti. Adesso sento il bisogno
di approfondirli perché hanno segnato la vita di mia madre. Perché
forse, come sostiene Daniele, se Pinelli non fosse stato ucciso lei
non si sarebbe lasciata coinvolgere così tanto dalla politica. Forse
avrebbe evitato di fare domande, di andare a curiosare su cose che
ancora oggi restano avvolte nel mistero. Quel che è certo è che
dopo quel 15 dicembre del 1969 ha cambiato modo di vivere e di essere
parte della società.
Fino
ad allora, scrive nel diario, «Non
ho mai frequentato da militante sezioni di partito, e neppure circoli
libertari. Dopo la morte di Pinelli sono andata a bussare alla porta
dello scantinato di via Vettor Fausto dove Aldo e Anna, subito dopo
la Liberazione, avevano aperto la sede del Gruppo anarchico Cafiero,
già aderente ai Gruppi di Iniziativa Anarchica. Sulle pareti, in
bella grafia, qualcuno aveva affrescato motti del tipo: «Il
Vaticano è come un pugnale nel cuore d’Italia», «Anarchico è il
pensiero e verso l’anarchia va la storia», «Il denaro, ecco il
nemico, pervertitore di ogni sentimento retto». Il più ardito che
s’è conservato: «Solcati ancor dal fulmine eppur l’avvenir siam
noi!». Dentro la vetrina, ben ordinate, le collezioni di «Umanità
Nova», dell’«Adunata dei Refrattari», dell’«Internazionale»,
di «Volontà», e poi i libri in vendita: Gori, Fabbri, Malatesta.
Sul tavolo, la macchina da scrivere, una Olivetti a carrello lungo
che Adriano Olivetti regalò alla redazione di Umanità nova e che,
dopo la scissione del 1965, finì lì. E ancora la biblioteca, con un
migliaio di libri, aste e bandiere, quelle con la fiaccola, e i
manifesti per le vittime politiche. Al Cafiero ho conosciuto Andrea
che si dice abbia frequentato Malatesta; Perugia che ha scontato una
lunga pena per «delitto d’onore», Italo che era stato confinato
a Ventotene per undici anni. Nessuno ha meno di settant’anni. Ci
parlano di Sacco e Vanzetti, dei martiri di Chicago. Ci consegnano
una storia di sterminio fatta di sedie elettriche, vili garrote,
carcere, esilio, povertà».
Al
Cafiero, così dice nel diario, hai conosciuto anche Franco, un
toscano che studiava a Roma. A lui che la interrogava sull’anarchia
ha dedicato una pagina. Oggi
Fra mi ha chiesto perché non voglio iscrivermi a nessun circolo
libertario, né alcun gruppo pur sostenendo di essere un’anarchica.
Ho cercato di spiegargli che per me essere un’anarchica non è un
marchio di fabbrica. È un sentimento, una condotta di vita. Del
resto ho scoperto di essere un’anarchica solo dopo aver letto “Il
buon senso della rivoluzione” di Malatesta e “Il miglior governo
è quello che non governa affatto”, di Henry Thoureau. E la
conferma mi è arrivata da Bakunin, da Protpokin, da Stirnern, da
Cafiero, da Emma Gooldman. Ho ritrovato in quegli scritti le mie
piccole battaglie contro l’ingiustizia, per l’egualitarismo e la
libertà. Purtroppo la maggior parte di queste lotte si sono concluse
con la sconfitta. E questo mi tormenta. Spero almeno che nel campo
dove ho seminato il seme della solidarietà, del rispetto degli
ultimi, dell’amore senza interessi, cresca forte un nuovo
sentimento anarchico. Voglio illudermi che quel sentimento generi un
rivoluzionario che si impegnerà, attraverso l’esempio, a fare
proseliti. E così via. Perché tutti possono contribuire alla
diffusione dell’Anarchia dimostrando che si può vivere in una
società dove si aiuta e si viene aiutati, dove si ama e si è amati
con la stessa intensità e senza chiederlo, dove tutti sono
rispettati per quello che sono. Consapevoli di essere parte di
un’umanità soggiogata ma non doma, forte solo della propria
dignità e coerenza.
È
possibile! Si può fare».
Malatesta,
Stirner, Bakunin, Kropotkin, Goldman. Mia madre aveva
letto quasi tutti i loro saggi sull’anarchia e amava citarli.
Questo me lo ricordo, anche se ero piccola. E da grande rileggere
quei libri mi ha fatto sempre sentire meno sola. Quando voglio sapere
come la pensa lei su qualcosa vado a cercare lì. Parlava a ruota
libera della polemica tra comunisti autoritari e libertari, dello
scontro tra Marx e Bakunin, delle persecuzioni dei bolscevichi in
Russia dopo il 1917. Racconti che alternava alle storie di anarchici
che avevano pagato con la morte. Mi narrava, quasi si trattasse di
una fiaba, di Gino Lucetti che voleva ammazzare Mussolini, del cuoco
Giuseppe Passannante che cercò di uccidere Umberto I e che fu chiuso
in una cella sotto il livello del mare nella fortezza di
Portoferraio. E poi di Romeo Frezzi che venne arrestato perché
ritenuto complice di un altro attentatore di Umberto I, Pietro
Acciarito, e morì in galera in circostanze misteriose. Le guardie
dissero che si era suicidato, invece un medico, il dottor Pardo,
accertò che Frezzi venne ucciso. Ma soprattutto parlava di Gaetano
Bresci che ammazzò il re e che venne ucciso nel carcere di Santo
Stefano. Ogni volta che andavamo a Ventotene ci facevamo portare dai
pescatori all’isola per andare a mettere i fiori sulla sua tomba.
In realtà nessuno sa in quale di quelle fosse sono state messe le
ossa dell’anarchico. Ma noi avevamo deciso che il sepolcro di
Bresci non poteva che essere quell’unico mucchio di terra che
d’estate e d’inverno era ricoperto di capelvenere sul quale era
stata piantata la più sgangherata delle croci.
Quando
parlava degli anarchici li definiva come dei miserabili che aiutavano
chi era più miserabile di loro. Questo voleva essere lei. Lei che
eri contro ogni tipo di violenza.
Quando
a casa si discuteva sugli attentati, sugli omicidi che in quegli anni
riempivano le pagine dei giornali lei prendeva le distanze recitando
a memoria il credo di Malatesta: «L’idea centrale dell’anarchismo
è l’eliminazione della violenza dalla vita sociale: è
l’organizzazione dei rapporti sociali fondati sulla libera volontà
dei singoli, senza l’intervento del gendarme. Perciò siamo nemici
del capitalismo che appoggiandosi sulla protezione dei gendarmi
costringe i lavoratori a lasciarsi sfruttare dai possessori dei mezzi
di produzione o anche a restare oziosi e a patire la fame quando i
padroni hanno interesse a sfruttarli. Perciò siamo nemici dello
Stato che è l’organizzazione coercitiva, cioè violenta, della
società. La violenza è giustificabile solo quando è necessaria per
difendere se stesso e gli altri contro la violenza. Dove cessa la
necessità comincia il delitto».
Era
anarchica mia madre, ma non nell’accezione che la maggior parte
delle persone dà a questo termine. Da quello che mi ricordo io, ma
soprattutto da quello che mi hanno raccontato papà, zia Carla, zia
Moira e ora Daniele, non amava l’ordine costituito e le interessava
il punto di vista di ogni singola persona. Soprattutto dei border
line. C’era di sicuro in lei una visione romantica dell’anarchia,
identificata con l’emarginazione come un’esclusione totale,
assoluta dalla società, dalle convenzioni dominanti. Non era mai
stata interessata a far parte di questo o quel movimento pur
condividendone gli obiettivi, perchè era attratta dall’individuo,
da quelle donne e uomini apparentemente senza tempo, che restavano ai
margini. Le uniche persone che secondo lei conservavano la purezza
originaria. E anche lei volevi vivere ai margini. «Aveva una forte
propensione ad auto-escludersi», mi ha sempre detto zia. «Non credo
si sia mai sentita completamente a suo agio nel movimento. Nelle
nostre battaglie lei c’era sempre, ma non faceva parte del gruppo.
Il suo essere anarchica e per giunta individualista si prestava
benissimo anche a non rompere con nessuna delle componenti della
propria esistenza».
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