Se
ne sono andati tutti e due. Papà e Ciccio hanno preso l’aliscafo
del mattino. Non mi hanno nemmeno svegliata. Sul comodino qualcuno ha
lasciato una busta con su scritto: «Fanne quello che ritieni
giusto». Mi sembra la calligrafia di papà. Dentro ci sono alcuni
fogli scritti a mano. C’è n’è uno più grande, bianco, scritto
con la penna blu, gli altri sembrano essere stati strappati da un
quaderno. Un quaderno che potrebbe essere benissimo il diario di mia
madre. L’ultimo no. È una lettera a mio padre.
Sono
andata a via Margutta a cercare Luca. C’era un’inaugurazione e
pensavo che lui fosse lì. Invece no. Però ho incontrato Antonio.
Appena l’ho visto mi sono ricordata di una volta che si vantò con
Luca di conoscere molti brigadisti. Lo so è uno sbruffone, ma in
questo momento va bene tutto. Poi è arrivata anche Rita. Li ho visti
parlare fitto fitto. Ho aspettato che lei se ne fosse andata e con la
scusa di un quadro sono riuscita a farmi invitare a cena. Domani.
Quello
che si sono detti mamma e tale Antonio lo ha scritto lei stessa di
seguito.
Meglio
di così non poteva andare. Dopo cena mi ha portato a casa sua,
all’Eur. Ho iniziato a parlare di politica, del sequestro del
presidente Moro, delle Brigate Rosse e lui ha abboccato. Ha detto di
essere stato lui a scrivere il comunicato numero 7, quello del lago
della Duchessa. Mi ha persino raccontato di aver fatto il simbolo
utilizzando una moneta da cento lire… O meglio, lui ha copiato il
comunicato. Quello che doveva essere scritto glielo ho fatto avere
Rita. Mi è preso un colpo. Ma che cosa c’entra Rita in questa
storia? Ho evitato però di fare domande sulla stronza per paura che
cambiasse discorso. Gli ho chiesto se sapeva chi l’aveva scritto.
Mi ha detto che c’entrava un americano che alloggiava
all’Excelsior. Poi senza che io gli chiedessi nulla, ha detto che i
terroristi erano caduti nella sua trappola. Non si aspettavano di
trovarsi di fronte ad un altro terrorista che li utilizzava e li
manipolava psicologicamente. Erano stati ingannati e ormai non
potevano far altro che uccidere Moro.
Ho
fatto notare ad Antonio che una via d’uscita per loro e per il
presidente c’era, visto che ancora vivo. Secondo Antonio, invece,
è solo questione di ore, perché il presidente ha detto cose che non
doveva dire. Io mi sono messa a fare la parte dell’avvocato del
diavolo e ho rilanciato: quello che doveva rivelare l’ha rivelato;
vivo o morto Moro, i suoi segreti comunque sarebbero venuti fuori.
Antonio è scoppiato a ridere. Questo lo dici tu, ha sentenziato come
se lui la sapesse lunga. Faranno in modo che si sappia solo quello
che vogliono loro e ovviamente, ha aggiunto, non mi riferisco ai
sequestratori. Lasciandogli credere che io sapessi di Rita, ho
azzardato: «Certo! Rita farà in modo di tagliare nei punti
giusti…». Lui ha annuito.
Poi
ho lanciato un altro amo. Gli ho chiesto se è molto amico di Rita?
Lui ha risposto di sì, spiegandomi che lei gli ha fatto vendere un
sacco di quadri, mica come Luca, ha detto… E io, ovviamente, giù
con una valanga di complimenti per quella bravissima critica d’arte
che ha deciso di entrare nella lotta armata per il bene di tutti. Lei
sì che se ne intende di quadri, è una persona di gran cultura. E lo
dimostra il fatto che proprio a lei siano stati messi in mano quegli
interrogatori così preziosi. Antonio continuava a far sì con la
testa e gonfio d’orgoglio per essere proprio lui il prediletto di
quella mecenate con il mitra in mano, abbassando la voce mi ha
rivelato che lei gli ha raccontato di cosa stava dicendo il
presidente. Ci è mancato poco che svenissi quando ha pronunciato le
parole “strategia della tensione” e “piazza Fontana”. Ma ho
fatto finta di niente per a fargli credere che non ci credevo. E più
facevo la scettica e più lui entrava nel dettaglio.
Per
quanto riguarda i mandanti
Moro
ha detto che si collocano fuori dell’Italia, e che esistono
connivenze di organi dello Stato e della Democrazia Cristiana.
L’obiettivo è di rimettere l’Italia nei binari della normalità
dopo le vicende del ‘68 ed il cosiddetto autunno caldo. Sulla
strage di piazza Fontana il presidente sostiene che fu opera
materiale dei fascisti assoldati dal Sid e dalla Polizia. Moro
avrebbe tirato in ballo Fanfani e Andreotti. Racconta che uscendo
dalla Camera tempo dopo i fatti di Piazza Fontana, l’amico Salvi,
gli comunicò che in ambienti giudiziari di Brescia si parlava di
connivenze ed indulgenze deprecabili della Dc e accennava
all’onorevole Fanfani come promotore, sia pure da lontano, della
strategia della tensione. Di Andreotti dice che è colui che più a
lungo, di chiunque altro, diresse i servizi segreti, sia dalla
Difesa, sia, poi, dalla Presidenza del Consiglio con i liberali. Si
muoveva molto agevolmente nei rapporti con i colleghi della Cia,
tanto che poté essere informato di rapporti confidenziali fatti
dagli organi italiani a quelli americani.
Tutto
questo coincide con quanto mi ha raccontato un compagno di Milano che
sta scrivendo con il padre un libro1.
E cioè che fu un’intesa politica siglata il 23 dicembre 1969 tra
il ministro degli Esteri, Aldo Moro, e il Presidente della
Repubblica, Giuseppe Saragat, a impedire che si arrivasse in breve
tempo ai responsabili della strage di piazza Fontana. Dietro
quell’intesa la necessità di tutelare quello che Gianfranco chiama
il segreto della repubblica, cioè il tentativo di golpe
istituzionale, messo in atto con il sostegno degli americani e
duramente osteggiato dall’intelligence inglesei.
In pratica Saragat avrebbe rinunciato alla svolta autoritaria,
compresa l'ipotesi di scioglimento delle Camere e di ritorno al
centrismo. In cambio, le componenti democristiane legate a Moro e a
Andreotti, si adattarono a segretare le voci e le prove sempre più
nette (avanzate dall'Arma, dal nucleo di polizia giudiziaria dei
carabinieri di Roma e da un memoriale dello stesso Sid) sulla matrice
fascista della strage, accettando invece di mollare le briglie
all'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno affinché, in
sintonia con i copioni messi in scena tra Milano e Roma, continuasse
la rappresentazione della colpevolezza degli anarchici, tra i quali,
oltre al gruppo arrestato attorno a Valpreda, si era anche registrata
la morte traumatica del ferroviere Pinelli, trattenuto illegalmente
presso la questura di Milano.
Dovevo
andare avanti e alla fine mi sono fatta coraggio chiedendogli se
sapeva dove Rita teneva tutto questo materiale. Antonio ha tirato su
le spalle per farmi capire che non lo sapeva. Ma poi ci ha ripensato
e ha tirato fuori due posti dove presumibilmente nessuno lo avrebbe
cercato: la villa vicino Firenze o Ventotene.
Mi
è preso un colpo? Ventotene? Che c’entra Rita con la mia isola?
Poteva bastare. Con la scusa di non poter far tardi per colpa di
Sole, me ne sono andata.
Adesso
devo riorganizzare le idee.
Innanzitutto
devo assolutamente andare a Ventotene. Sono già due volte che
qualcuno mi dice di andare a cercare lì. Devo sapere se Luca e Rita
sono stati visti recentemente sull’isola e soprattutto devo vedere
se a casa c’è ancora traccia di questi documenti. Domani mattina,
comunque, vado all’Excelsior per sapere il nome dell’americano
che frequenta Rita.
22
aprile 1978, ore 2 del mattino
Mamma
nella pagina successiva annota:
L’americano
si chiama Steve Pieczenik e lavora per K.
E
subito dopo.
A
Ventotene Rita è stata a casa mia. Me lo ha detto Verde. L’ha
vista e le ha chiesto cosa ci faceva lì. Lei ha risposto che era
ospite di Luca. Si è fermata alcuni giorni insieme ad un uomo di una
certa età. Verde non si ricorda cognome, ma ha detto che gli
ricordava un nome russo. Con la sua proverbiale capacità di
attaccare bottone con gli sconosciuti, è venuto sapere da lui stesso
che era un compositore, direttore d’orchestra e pianista e che
durante la resistenza salvò la vita a Carlo Levi, correndo da
Firenze a Fiesole in bicicletta per avvertirlo dell’arrivo di un
rastrellamento dei tedeschi. Quest’uomo, pare sia stato intimo
amico di Majakowski, venne ricevuto da Stalin in persona e fu
nominato direttore del teatro stabile de L’Avana da Fidel Castro in
persona. Rita non faceva che tesserne le sue lodi e le sue
frequentazioni con Cocteau, Stravinskij, Picasso, Cole Porter.
Tornata
a Roma ho scoperto che l’amico della stronza è Igor Markevitch.
Questo tizio, pare che compaia in una nota del Sismi e i servizi
segreti lo stanno cercando perché sanno che può essere utile per
trovare i sequestratori del presidente. Devo avvertire Luca, devo
salvarlo.
Mamma
c’era riuscita. Aveva trovato il memoriale e aveva capito cosa
c’era dietro. Di seguito trovo tutta la sua angoscia per non
essere riuscita a far capire a mio padre il pericolo che stava
correndo.
Ha
detto che sono pazza. Che non ho uno straccio di prove, che mi sto
mettendo dentro a una cosa più grande di me, che devo lasciar
perdere tutto. Mi ha chiesto se avevo detto queste cose a qualcuno e
ha continuato a sostenere l’innocenza di Rita. Era una furia. E
quando ho fatto il nome di Markevitch ha spergiurato di non
conoscerlo, di non sapere assolutamente chi fosse e di non volerlo
sapere. Alla fine sono riuscita a farmi promettere che avrebbe
preteso dalla sua amica delle spiegazioni. Poi se ne è andato,
sbattendo la porta. Prima però mi ha dato un bacio e mi ha detto di
stare attenta. Mi ha consigliato di starmene zitta e di andare da
Sole.
Mamma
c’era riuscita. Aveva trovato il memoriale e aveva capito cosa
c’era dietro. Ma perché questi fogli del suo diario ce li ha
papà? Se li avessi strappati Rita li avrebbe consegnati ai suoi
amici oppure li avrebbe distrutti immediatamente. Perché conservare
una prova così compromettente? Forse ha ragione Ciccio. Lì ha presi
papà nel tentativo di salvare mamma. E se li è tenuti, forse, come
se fosse un’assicurazione sulla vita.
Non
so darmi una risposta, così mi metto a leggere la lettera
indirizzata a papà, datata 15 dicembre 1978 che ho trovato questa
mattina sul comodino. È della stronza.
Caro
Luca, so che sei disperato e che la piccola Sole mi detesta. Non
potrò mai sostituire Maria nella vostra vita, né tanto meno nei
vostri cuori. Quello che ti offro ora è la possibilità di
continuare a vivere, di dimenticare quello che è stato, di
ricominciare.
So
che ho sbagliato. Sono consapevole del fatto che ti ho coinvolto in
questa follia. Ma sono innamorata di te, lo sono sempre stata, dal
momento stesso che ti ho conosciuto. Volevo che fossi il mio uomo,
volevo essere amata da te. E quando hai deciso di entrare nella
lotta armata ho creduto che fosse anche per me. Invece no. Ma l’ho
capito troppo tardi. Tu pensavi veramente che avremmo potuto
cambiare il mondo. Lo volevi più di ogni altra cosa anche a costo di
rinunciare ad avere vicino tua moglie e tua figlia. Per questo hai
accettato senza indugi di insegnare ai compagni a sparare, di
pedinare il presidente e di partecipare all’agguato di via Fani.
Io guidavo la moto, ma ero terrorizzata. Se non ci fossi stato tu
dietro io non ce l’avrei mai fatta. Mi sarei fatta beccare, avrei
mandato a puttane tutto il piano. Tu invece eri lucido, determinato,
convinto che quell’azione avrebbe aperto la via della rivoluzione.
Poi
ti sei reso conto che eravamo finiti in una trappola. Ricordo di una
riunione a Roma: hai avuto il coraggio di ribellarti schierandosi
dalla parte del prigioniero. Avevi coraggio, Luca. Io no. A qualsiasi
obiezione trovavi sempre il modo per mandare in crisi gli altri
compagni e portarli dalla tua parte. Alla fine avevi convinto pure
me: il presidente vivo e libero avrebbe aiutato la nostra causa più
che da morto. Ma non potevo fare nulla. Nessun passo indietro era
previsto nel mio ingaggio. Dovevo portare a termine la mia parte
nell’operazione. Il presidente doveva morire e quanto aveva
rivelato dove essere accuratamente censurato. Così è stato. Sono
stata brava, mi ha detto Markevitch. E come premio sarò tenuta fuori
da tutta questa storia. Insieme a te, naturalmente. Ho giurato che
non avrei rivelato mai a nessuno quanto avevo visto e sapevo di quei
cinquantacinque giorni, né avrei fatto parola di cosa successe a
Fani, finché sarebbe stata tenuta nascosta la mia e la tua identità.
Spero
che accetterai di venire qui a Firenze insieme a Sole. Voglio aiutare
la tua bambina ad avere un’infanzia felice. Lo sai, mi sento in
colpa. Sono stata io tirarti dentro a questo pasticcio. E farò in
modo di tirarti fuori. Lo giuro.
Rita
Vorrei
ucciderla. Sì. Vorrei vederla morta. Sono sentimenti che non credevo
di poter provare, ma in questo momento non riesco a giustificarla, né
a perdonarla. Se io non ho più mia madre accanto è colpa sua. Se io
sono dovuta crescere senza di lei è colpa sua. Se la nostra vita è
stata spezzata, la colpa è la sua. Di nessun altro. Quanto a mio
padre, non riesco proprio a capire sia riuscito ad accettare un
ricatto del genere. Come ha potuto consegnare la sua vita nelle mani
di una donna senza scrupoli, che non ha esitato un attimo a togliere
di mezzo la sua rivale. Mia madre.
Non
so se la denuncerò. In questo momento ho solo voglia di abbracciare
mio padre che, ora ne sono sicura, ha fatto sparire quelle pagine
dal diario di mamma, in un ultimo, estremo tentativo di tenerla
lontana dai guai. In questo momento voglio solo stargli vicino.
Lo
chiamo sul cellulare. Squilla, per fortuna.
«Prendo
il traghetto delle tre. Aspettami a Formia. Torniamo insieme a Roma.
Poi decideremo cosa fare».
Note:
1
Walter Rubini, Il segreto della Repubblica, ed. Flan 1978. Riedito
da Selene con i veri nomi degli autori: Fulvio e Gianfranco Bellini,
a cura di Paolo Cucchiarelli.
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