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Capitolo 21

Se ne sono andati tutti e due. Papà e Ciccio hanno preso l’aliscafo del mattino. Non mi hanno nemmeno svegliata. Sul comodino qualcuno ha lasciato una busta con su scritto: «Fanne quello che ritieni giusto». Mi sembra la calligrafia di papà. Dentro ci sono alcuni fogli scritti a mano. C’è n’è uno più grande, bianco, scritto con la penna blu, gli altri sembrano essere stati strappati da un quaderno. Un quaderno che potrebbe essere benissimo il diario di mia madre. L’ultimo no. È una lettera a mio padre.
Sono andata a via Margutta a cercare Luca. C’era un’inaugurazione e pensavo che lui fosse lì. Invece no. Però ho incontrato Antonio. Appena l’ho visto mi sono ricordata di una volta che si vantò con Luca di conoscere molti brigadisti. Lo so è uno sbruffone, ma in questo momento va bene tutto. Poi è arrivata anche Rita. Li ho visti parlare fitto fitto. Ho aspettato che lei se ne fosse andata e con la scusa di un quadro sono riuscita a farmi invitare a cena. Domani.
Quello che si sono detti mamma e tale Antonio lo ha scritto lei stessa di seguito.
Meglio di così non poteva andare. Dopo cena mi ha portato a casa sua, all’Eur. Ho iniziato a parlare di politica, del sequestro del presidente Moro, delle Brigate Rosse e lui ha abboccato. Ha detto di essere stato lui a scrivere il comunicato numero 7, quello del lago della Duchessa. Mi ha persino raccontato di aver fatto il simbolo utilizzando una moneta da cento lire… O meglio, lui ha copiato il comunicato. Quello che doveva essere scritto glielo ho fatto avere Rita. Mi è preso un colpo. Ma che cosa c’entra Rita in questa storia? Ho evitato però di fare domande sulla stronza per paura che cambiasse discorso. Gli ho chiesto se sapeva chi l’aveva scritto. Mi ha detto che c’entrava un americano che alloggiava all’Excelsior. Poi senza che io gli chiedessi nulla, ha detto che i terroristi erano caduti nella sua trappola. Non si aspettavano di trovarsi di fronte ad un altro terrorista che li utilizzava e li manipolava psicologicamente. Erano stati ingannati e ormai non potevano far altro che uccidere Moro.
Ho fatto notare ad Antonio che una via d’uscita per loro e per il presidente c’era, visto che ancora vivo. Secondo Antonio, invece, è solo questione di ore, perché il presidente ha detto cose che non doveva dire. Io mi sono messa a fare la parte dell’avvocato del diavolo e ho rilanciato: quello che doveva rivelare l’ha rivelato; vivo o morto Moro, i suoi segreti comunque sarebbero venuti fuori. Antonio è scoppiato a ridere. Questo lo dici tu, ha sentenziato come se lui la sapesse lunga. Faranno in modo che si sappia solo quello che vogliono loro e ovviamente, ha aggiunto, non mi riferisco ai sequestratori. Lasciandogli credere che io sapessi di Rita, ho azzardato: «Certo! Rita farà in modo di tagliare nei punti giusti…». Lui ha annuito.
Poi ho lanciato un altro amo. Gli ho chiesto se è molto amico di Rita? Lui ha risposto di sì, spiegandomi che lei gli ha fatto vendere un sacco di quadri, mica come Luca, ha detto… E io, ovviamente, giù con una valanga di complimenti per quella bravissima critica d’arte che ha deciso di entrare nella lotta armata per il bene di tutti. Lei sì che se ne intende di quadri, è una persona di gran cultura. E lo dimostra il fatto che proprio a lei siano stati messi in mano quegli interrogatori così preziosi. Antonio continuava a far sì con la testa e gonfio d’orgoglio per essere proprio lui il prediletto di quella mecenate con il mitra in mano, abbassando la voce mi ha rivelato che lei gli ha raccontato di cosa stava dicendo il presidente. Ci è mancato poco che svenissi quando ha pronunciato le parole “strategia della tensione” e “piazza Fontana”. Ma ho fatto finta di niente per a fargli credere che non ci credevo. E più facevo la scettica e più lui entrava nel dettaglio.
Per quanto riguarda i mandanti Moro ha detto che si collocano fuori dell’Italia, e che esistono connivenze di organi dello Stato e della Democrazia Cristiana. L’obiettivo è di rimettere l’Italia nei binari della normalità dopo le vicende del ‘68 ed il cosiddetto autunno caldo. Sulla strage di piazza Fontana il presidente sostiene che fu opera materiale dei fascisti assoldati dal Sid e dalla Polizia. Moro avrebbe tirato in ballo Fanfani e Andreotti. Racconta che uscendo dalla Camera tempo dopo i fatti di Piazza Fontana, l’amico Salvi, gli comunicò che in ambienti giudiziari di Brescia si parlava di connivenze ed indulgenze deprecabili della Dc e accennava all’onorevole Fanfani come promotore, sia pure da lontano, della strategia della tensione. Di Andreotti dice che è colui che più a lungo, di chiunque altro, diresse i servizi segreti, sia dalla Difesa, sia, poi, dalla Presidenza del Consiglio con i liberali. Si muoveva molto agevolmente nei rapporti con i colleghi della Cia, tanto che poté essere informato di rapporti confidenziali fatti dagli organi italiani a quelli americani.
Tutto questo coincide con quanto mi ha raccontato un compagno di Milano che sta scrivendo con il padre un libro1. E cioè che fu un’intesa politica siglata il 23 dicembre 1969 tra il ministro degli Esteri, Aldo Moro, e il Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, a impedire che si arrivasse in breve tempo ai responsabili della strage di piazza Fontana. Dietro quell’intesa la necessità di tutelare quello che Gianfranco chiama il segreto della repubblica, cioè il tentativo di golpe istituzionale, messo in atto con il sostegno degli americani e duramente osteggiato dall’intelligence inglesei. In pratica Saragat avrebbe rinunciato alla svolta autoritaria, compresa l'ipotesi di scioglimento delle Camere e di ritorno al centrismo. In cambio, le componenti democristiane legate a Moro e a Andreotti, si adattarono a segretare le voci e le prove sempre più nette (avanzate dall'Arma, dal nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri di Roma e da un memoriale dello stesso Sid) sulla matrice fascista della strage, accettando invece di mollare le briglie all'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno affinché, in sintonia con i copioni messi in scena tra Milano e Roma, continuasse la rappresentazione della colpevolezza degli anarchici, tra i quali, oltre al gruppo arrestato attorno a Valpreda, si era anche registrata la morte traumatica del ferroviere Pinelli, trattenuto illegalmente presso la questura di Milano.
Dovevo andare avanti e alla fine mi sono fatta coraggio chiedendogli se sapeva dove Rita teneva tutto questo materiale. Antonio ha tirato su le spalle per farmi capire che non lo sapeva. Ma poi ci ha ripensato e ha tirato fuori due posti dove presumibilmente nessuno lo avrebbe cercato: la villa vicino Firenze o Ventotene.
Mi è preso un colpo? Ventotene? Che c’entra Rita con la mia isola? Poteva bastare. Con la scusa di non poter far tardi per colpa di Sole, me ne sono andata.
Adesso devo riorganizzare le idee.
Innanzitutto devo assolutamente andare a Ventotene. Sono già due volte che qualcuno mi dice di andare a cercare lì. Devo sapere se Luca e Rita sono stati visti recentemente sull’isola e soprattutto devo vedere se a casa c’è ancora traccia di questi documenti. Domani mattina, comunque, vado all’Excelsior per sapere il nome dell’americano che frequenta Rita.
22 aprile 1978, ore 2 del mattino
Mamma nella pagina successiva annota:
L’americano si chiama Steve Pieczenik e lavora per K.
E subito dopo.
A Ventotene Rita è stata a casa mia. Me lo ha detto Verde. L’ha vista e le ha chiesto cosa ci faceva lì. Lei ha risposto che era ospite di Luca. Si è fermata alcuni giorni insieme ad un uomo di una certa età. Verde non si ricorda cognome, ma ha detto che gli ricordava un nome russo. Con la sua proverbiale capacità di attaccare bottone con gli sconosciuti, è venuto sapere da lui stesso che era un compositore, direttore d’orchestra e pianista e che durante la resistenza salvò la vita a Carlo Levi, correndo da Firenze a Fiesole in bicicletta per avvertirlo dell’arrivo di un rastrellamento dei tedeschi. Quest’uomo, pare sia stato intimo amico di Majakowski, venne ricevuto da Stalin in persona e fu nominato direttore del teatro stabile de L’Avana da Fidel Castro in persona. Rita non faceva che tesserne le sue lodi e le sue frequentazioni con Cocteau, Stravinskij, Picasso, Cole Porter.
Tornata a Roma ho scoperto che l’amico della stronza è Igor Markevitch. Questo tizio, pare che compaia in una nota del Sismi e i servizi segreti lo stanno cercando perché sanno che può essere utile per trovare i sequestratori del presidente. Devo avvertire Luca, devo salvarlo.
Mamma c’era riuscita. Aveva trovato il memoriale e aveva capito cosa c’era dietro. Di seguito trovo tutta la sua angoscia per non essere riuscita a far capire a mio padre il pericolo che stava correndo.
Ha detto che sono pazza. Che non ho uno straccio di prove, che mi sto mettendo dentro a una cosa più grande di me, che devo lasciar perdere tutto. Mi ha chiesto se avevo detto queste cose a qualcuno e ha continuato a sostenere l’innocenza di Rita. Era una furia. E quando ho fatto il nome di Markevitch ha spergiurato di non conoscerlo, di non sapere assolutamente chi fosse e di non volerlo sapere. Alla fine sono riuscita a farmi promettere che avrebbe preteso dalla sua amica delle spiegazioni. Poi se ne è andato, sbattendo la porta. Prima però mi ha dato un bacio e mi ha detto di stare attenta. Mi ha consigliato di starmene zitta e di andare da Sole.
Mamma c’era riuscita. Aveva trovato il memoriale e aveva capito cosa c’era dietro. Ma perché questi fogli del suo diario ce li ha papà? Se li avessi strappati Rita li avrebbe consegnati ai suoi amici oppure li avrebbe distrutti immediatamente. Perché conservare una prova così compromettente? Forse ha ragione Ciccio. Lì ha presi papà nel tentativo di salvare mamma. E se li è tenuti, forse, come se fosse un’assicurazione sulla vita.
Non so darmi una risposta, così mi metto a leggere la lettera indirizzata a papà, datata 15 dicembre 1978 che ho trovato questa mattina sul comodino. È della stronza.
Caro Luca, so che sei disperato e che la piccola Sole mi detesta. Non potrò mai sostituire Maria nella vostra vita, né tanto meno nei vostri cuori. Quello che ti offro ora è la possibilità di continuare a vivere, di dimenticare quello che è stato, di ricominciare.
So che ho sbagliato. Sono consapevole del fatto che ti ho coinvolto in questa follia. Ma sono innamorata di te, lo sono sempre stata, dal momento stesso che ti ho conosciuto. Volevo che fossi il mio uomo, volevo essere amata da te. E quando hai deciso di entrare nella lotta armata ho creduto che fosse anche per me. Invece no. Ma l’ho capito troppo tardi. Tu pensavi veramente che avremmo potuto cambiare il mondo. Lo volevi più di ogni altra cosa anche a costo di rinunciare ad avere vicino tua moglie e tua figlia. Per questo hai accettato senza indugi di insegnare ai compagni a sparare, di pedinare il presidente e di partecipare all’agguato di via Fani. Io guidavo la moto, ma ero terrorizzata. Se non ci fossi stato tu dietro io non ce l’avrei mai fatta. Mi sarei fatta beccare, avrei mandato a puttane tutto il piano. Tu invece eri lucido, determinato, convinto che quell’azione avrebbe aperto la via della rivoluzione.
Poi ti sei reso conto che eravamo finiti in una trappola. Ricordo di una riunione a Roma: hai avuto il coraggio di ribellarti schierandosi dalla parte del prigioniero. Avevi coraggio, Luca. Io no. A qualsiasi obiezione trovavi sempre il modo per mandare in crisi gli altri compagni e portarli dalla tua parte. Alla fine avevi convinto pure me: il presidente vivo e libero avrebbe aiutato la nostra causa più che da morto. Ma non potevo fare nulla. Nessun passo indietro era previsto nel mio ingaggio. Dovevo portare a termine la mia parte nell’operazione. Il presidente doveva morire e quanto aveva rivelato dove essere accuratamente censurato. Così è stato. Sono stata brava, mi ha detto Markevitch. E come premio sarò tenuta fuori da tutta questa storia. Insieme a te, naturalmente. Ho giurato che non avrei rivelato mai a nessuno quanto avevo visto e sapevo di quei cinquantacinque giorni, né avrei fatto parola di cosa successe a Fani, finché sarebbe stata tenuta nascosta la mia e la tua identità.
Spero che accetterai di venire qui a Firenze insieme a Sole. Voglio aiutare la tua bambina ad avere un’infanzia felice. Lo sai, mi sento in colpa. Sono stata io tirarti dentro a questo pasticcio. E farò in modo di tirarti fuori. Lo giuro.
Rita
Vorrei ucciderla. Sì. Vorrei vederla morta. Sono sentimenti che non credevo di poter provare, ma in questo momento non riesco a giustificarla, né a perdonarla. Se io non ho più mia madre accanto è colpa sua. Se io sono dovuta crescere senza di lei è colpa sua. Se la nostra vita è stata spezzata, la colpa è la sua. Di nessun altro. Quanto a mio padre, non riesco proprio a capire sia riuscito ad accettare un ricatto del genere. Come ha potuto consegnare la sua vita nelle mani di una donna senza scrupoli, che non ha esitato un attimo a togliere di mezzo la sua rivale. Mia madre.
Non so se la denuncerò. In questo momento ho solo voglia di abbracciare mio padre che, ora ne sono sicura, ha fatto sparire quelle pagine dal diario di mamma, in un ultimo, estremo tentativo di tenerla lontana dai guai. In questo momento voglio solo stargli vicino.
Lo chiamo sul cellulare. Squilla, per fortuna.
«Prendo il traghetto delle tre. Aspettami a Formia. Torniamo insieme a Roma. Poi decideremo cosa fare».


Note:
1 Walter Rubini, Il segreto della Repubblica, ed. Flan 1978. Riedito da Selene con i veri nomi degli autori: Fulvio e Gianfranco Bellini, a cura di Paolo Cucchiarelli.



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