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Capitolo 2

Daniele si è fermato a Ventotene solo due giorni. E devo confessare che nonostante i timori iniziali, la sua visita mi ha fatto molto piacere. È stato molto gentile e ha voluto che gli mostrassi i posti di Ventotene che mia madre amava di più. Per prima cosa l’ho accompagnato a punta Eolo. Abbiamo attraversato il sentiero nascosto vicino al cimitero, rigoglioso, in questo periodo dell’anno, di aloe, fichi d’india, ginestra, e canne. Ci siamo arrampicati sulle rocce, abbiamo sbirciato nell’area archeologica della villa di Giulia e gli ho raccontato di quante storie ci inventavamo sugli antichi abitanti di quei ruderi che all’epoca erano completamente abbandonati. Poi ci siamo seduti sul nostro scoglio, quello in “pizzo in pizzo” dove contavamo le barche e aspettavamo il traghetto. Siamo rimasti in silenzio a guardare l’orizzonte. Ognuno assorto nei propri pensieri. Stava per alzarsi e tornare indietro quando l’ho preso per una mano e lo fatto rimettere seduto. «Perché hai voluto vedermi?», gli ho chiesto. Avevo rimandato la domanda per tutta la passeggiata aspettando il momento più adatto. Era arrivato.
«Speravo che me l’avessi chiesto, Sole. Voglio che tu sappia la verità. E il regalo che ti ho portato ti aiuterà a farlo. Intanto vorrei raccontarti una storia partendo dalla fine. Dall’ultima sera che Maria ed io ci siamo visti. Mentre l’accompagnavo a prendere l’auto mi ha confidato di aver scoperto chi sia chi era quell’Igor che stava cercando da alcune settimane e di aver capito chi era a gestire il sequestro Moro. Era nervosa perché non sapeva come comportarsi. Le dissi di stare attenta. Mi baciò per l’ultima volta». Quello che accadde due giorni dopo è storia. La storia della mia vita.
Era il primo maggio del 1978 e mamma mi stava raggiungendo a casa di nonna a Campagnano. Con la sua Renault 4 rossa si è schiantata contro un camion che con il suo carico di 300 quintali di pomodori arrancava a 45 chilometri l’ora sulla Cassia bis, subito dopo le Rughe. Non c'è stato nulla da fare. Il caso fu frettolosamente archiviato come incidente. Ma Daniele mi ha detto di non averci mai creduto.
«Innanzitutto», ha ripreso a raccontare accendendosi il sigaro che teneva spento tra le labbra, «è curioso che il camionista avesse deciso di fare quel viaggio proprio il Primo maggio. Perché invece di godersi il meritato riposo della festa dei lavoratori si è messo alla guida»?
«Ma la cosa più strana», ha insistito, «è che niente dei suoi effetti personali furono riconsegnati a tuo padre. Neppure i suoi vestiti o le cianfrusaglie che aveva in tasca e nella borsa. Così come non c’è più traccia al ministero degli Interni del rapporto che la polizia stradale promise di inviare insieme ai documenti e il materiale trovato nell’auto». Daniele mi ha detto di essere convinto che ci fosse qualche cosa legata all’indagine sulla quale tu stavi lavorando. Io non riuscivo a capire di cosa stesse parlando e non so se mi interessa, visto che ripensare alla tua morte mi fa star male.
«Secondo me quell’Igor di cui parla tua madre è Igor Markevitch», ha continuato Daniele dopo aver aspirando profondamente il cubano nel silenzio più totale. «Il 14 ottobre 1978 una fonte del Senato segnalò che un certo Igor aveva avuto un ruolo di primo piano nell’organizzazione delle Brigate rosse e che, in particolare, avrebbe condotto tutti gli interrogatori di Moro, della cui esecuzione sarebbero stati autori materiali certi “Anna” e “Franco”. La persona fu identificata con Igor Markevitch, grande direttore d’orchestra di fama internazionale, oriundo russo ed ora cittadino italiano, coniugato con Topazia Caetani. Ma dopo alcuni accertamenti con l’intervento dei servizi segreti, non emersero elementi concreti che indicassero nel maestro l’appartenenza alle Brigate rosse. Sul finire degli anni Novanta, trapelarono strane notizie sulla possibile presenza alle riunioni del comitato esecutivo delle Brigate rosse di un personaggio di primissimo piano. Fu il dissociato Valerio Morucci che parlò di un “anfitrione”, di un personaggio misterioso che a suo dire avrebbe messo a disposizione delle Br, per le riunioni, una villa vicino a Firenze. Da successivi elementi emerse l’ipotesi che l’uomo potesse essere proprio Markevicth, che tra le altre cose aveva un passato nella resistenza nelle formazioni dei Gap».
Daniele si è alzato e si è avvicinato al precipizio. Ha proseguito il suo monologo come se si trovasse su un palcoscenico, di fronte al pubblico. La cosa mi ha dato un senso di nausea e credo di essermi distratta. «Man mano che prendeva quota la leggenda del Grande Vecchio, il senatore Pellegrino, presidente della Commissione Stragi, riaprì le indagini su alcune segnalazioni che le inchieste giudiziarie avevano tralasciato, e a poco a poco prese corpo una storia straordinaria. Pellegrino affidò le indagini al maggiore Massimo Girando dei ROS, uno dei migliori uomini dell’arma dei carabinieri, direttamente alle dipendenze del generale Mori, allora comandante generale dei carabinieri. L’indagine, che si concluse nel 2001, portò alla scoperta di un intreccio di poteri forti, intelligenze segrete, massonerie internazionali che sarebbero ad un certo punto subentrate nella gestione del sequestro Moro. Mi ascolti?».
Sì, stavo ascoltando. Ma facevo fatica a star dietro a quello che mi stava dicendo. Non ho osato però fare domande. Ho avuto paura di sapere. «Igor Markevicth», ha seguitato Daniele accendendosi il sigaro ormai spendo, «si scoprì che già durante la prigionia del presidente Dc era noto al Sismi. Ma le indagini condotte su di lui dal servizio segreto furono interrotte da un intervento “superiore”. Era il primo maggio 1978, mancava ancora una settimana al compimento della tragedia, quando due agenti del nostro controspionaggio si recarono a Palazzo Caetani, nella stessa strada dove otto giorni dopo sarebbe stata ritrovata la Renault rossa con il corpo di Moro. I due agenti, su richiesta del loro diretto superiore, cercavano informazioni su un certo Igor Caetani, ma non c’erano discendenti maschi nella nobile famiglia romana. L’ultimo era Michelangelo che aveva avuto soltanto una figlia femmina, Topazia, sposata con il musicista Igor Markevicth, direttore dell’Accademia di Santa Cecilia, dal quale però era ormai divorziata. Il domicilio di Palazzo Caetani era da tempo di Hubert Howard, vedovo di Lelia, la cugina di Topazia morta da oltre un anno. Le indagini si bloccarono per colpa di un non meglio identificato “ordine superiore”, forse impartito dal capo del Sismi e ai due agenti, non restò che constatare che la missione era fallita proprio lì, in via Caetani, quando si stava per aprire la “porta segreta”».
In quel momento moriva mia madre.
In silenzio mi sono alzata e sono andata via con gli occhi pieni di lacrime. Se avessi potuto lo avrei fatto scomparire, ma Daniele mi è venuto dietro cambiando completamente discorso.
«Non ha mai voluto che la raggiungessi qui», ha iniziato a urlare mentre mi raggiungeva. Io avevo già ripreso a a ritroso il sentiero in mezzo alle ginestre e le aloe. «E dopo la sua morte non ha avuto più senso venire a Ventotene. Ora che sento il profumo che tua madre ha cercato di descrivermi un’infinità di volte, ora che vedo il colore del mare e lo spettacolo affascinante di Santo Stefano ho finalmente capito perché diceva che era un’isola magica. Un’isola che secondo lei ha il potere di ammaliarti e di non lasciarti più andare via. Ma queste sono cose che tu sai meglio di me».
È vero. Mia madre avrebbe voluto vivere qui a Ventotene. Avrebbe voluto mollare tutto e trasferirsi qui con me. Ma poi c’era sempre qualcosa che la faceva desistere, cogliendo comunque ogni occasione per tornarci, soprattutto d’inverno quando c’erano al massimo duecento persone.
Ho invitato Daniele a togliersi le scarpe e a camminare scalzo, così come faceva lei. Sostenevi che in questo modo si poteva incamerare l’energia del vulcano del quale Ventotene rappresenta solo la parte visibile, e io ci credevo. Ci credo. Ce le siamo tolte entrambi ed abbiamo camminato a piedi nudi fino a piazza Castello per prenderci l’aperitivo da Verde.
«Mia madre era innamorata di te?», gli ho chiesto tutto d’un fiato cercando di cogliere sul suo viso un’espressione che mi desse la risposta prima ancora della sua voce. Daniele si è acceso ancora una volta il sigaro prima di parlare. Ha aspirato e gli occhi si sono illuminati come la brace del toscano che teneva in bocca. «Credo di sì. A modo suo, ma credo di sì».
«E tu?», lo ho interrogato ancora.
Anche questa volta la risposta non è stata immediata. Come se volesse trovare le parole giuste: «Ho cercato di negarlo anche a me stesso, ho fatto di tutto per non dimostrarglielo. Per dimenticarla. Ma non ci sono riuscito, anche se mi faceva stare male».
«Mia madre ti faceva stare male? Zia dice che eri tu a farla stare male», lo ho interrotto incuriosita, ma anche orgogliosa di avergli estorto questa confessione che ribalta completamente la tesi di Moira per cui tu eri vittima del fascino di quell’uomo.
«Non la capivo. Diceva di amarmi, ma non avrebbe mai lasciato tuo padre senza di te. Perchè a modo suo amava anche lui, che la tradiva e la trattava come una pazza. Non voleva privarlo della gioia di stare con sua figlia. Era una donna libera, ma con un grande senso di responsabilità. Non credo che Maria abbia mai avuto altre storie. Con me era diverso, perché noi non eravamo amanti, noi stavamo anche giorni senza vederci o sentirci, noi non ci facevamo promesse, il sentimento che ci legava era qualcosa di trascendentale che non aveva niente a che vedere con il sesso e il possesso. Purtroppo trent’anni fa non sono stato capace di comprenderne l’importanza, e oggi darei qualsiasi cosa pur di abbracciarla, di baciarla, di rassicurarla che quello che lei provava per me era esattamente quello che io provavo per lei. Se solo avessi avuto il coraggio di dirle che l’amavo, forse il destino sarebbe stato diverso».
Daniele mi ha guardato negli occhi in attesa di commento, di una replica a quanto mi aveva appena rivelato. Ma io non sapevo cosa dire, perché non riuscivo a capire che effetto avesse avuto su di me questa dichiarazione d’amore per mia madre aggiunta ai dubbi che mi aveva insinuato a Punta Eolo. Per fortuna si è avvicinata al nostro tavolo una signora per chiedergli l’autografo. Rimessi i panni dell’attore famoso, abbiamo iniziato a chiacchierare di cinema, dei suoi colleghi, dei registi e dei film in circolazione.
Ho anche cucinato per lui. Pasta alla norma. Anche questo, ha detto Daniele, era il segno che io sono uguale a mia madre. Pure lei la preparava spesso, ma per il semplice fatto che era una delle poche cose che sapevi cucinare. Però, ho evitato di dirglielo.
Abbiamo parlato molto anche di lui. Si è sposato, ha divorziato, e da qualche tempo sta con un’attrice più giovane di venti anni. Non ha figli. Mi ha detto queste cose come se non si rendesse conto di essere una persona famosa, che la sua vita è pubblica, raccontata sui rotocalchi. In effetti non sembra sentirsi un vip, non si comporta come la gente immagina si comporti uno che ha successo, ha i soldi, fa la bella vita. Mi è sembrato un uomo come tanti, con i suoi pensieri, con il suo passato che è ancora troppo presente. In un certo senso mi fa persino tenerezza. Mi ha confidato di essere stato spesso tentato di rintracciarmi, di vedermi, di parlarmi, ma la timidezza ha avuto sempre il sopravvento. Poi un giorno ha incontrato Francesco De Blase, un amico giornalista di mia madre, che gli ha detto che ero incinta, che stavo a Ventotene. Si è fatto dare il numero del cellulare, ma sì è deciso a chiamarmi solo dopo diverse settimane.
«Comunque non erano tutte rose e fiori con Maria», ha detto pure. «Era complicata, testarda, permalosa. Non c’erano vie di mezzo con lei. Non si poteva dare niente per scontato. Quando si metteva in testa una cosa, nessuno riusciva a farle cambiare idea. Doveva rendersene conto da sola e poi forse ammetteva di aver sbagliato. Ricordo di una sera che dovevamo andare ad una festa, io però stavo male e gli dissi che non avrei potuto accompagnarla. Mi disse di non preoccuparmi e ci andò con la sua amica, Moira. In realtà alla festa ci andai. Ma non ebbi modo di avvertirla perché a quel tempo non c’erano i cellulari. Quando mi vide lì non disse nulla, non venne neanche a salutare. Mi mandò tramite Moira un bigliettino con su scritto sei uno stronzo. Poi scomparve. Non si faceva vedere in giro, non rispondeva al telefono. Dopo un mesetto, un bel giorno, mi aspettò fuori dal teatro con un regalo, un libro. Non volle sentire spiegazioni, né volle più parlare di quella serata. Era fatta così. Però era anche molto dolce, sapeva ascoltare, sapeva dare consigli. E poi era generosa, forse troppo. Anche su questo litigavamo spesso. Mi comprava cose per la mia casa, libri, dischi, quadri. Io mi sentivo in imbarazzo e glielo dicevo. Ma era come parlare al vento. Anzi si offendeva rispondendo che lei faceva quello che voleva».
Già, mia madre hai sempre fatto quello che voleva. Non le importava nulla dei giudizi della gente, né di quello che pensavano i suoi amici. Ad esempio, mi ha raccontato Daniele, di quando ha chiesto a Ciccio, cioè a Francesco, di collaborare con lei. «Era un ragazzo che voleva fare il giornalista e tua madre gli insegnò il mestiere. Non gliene importava nulla che i suoi compagni la mettessero in guardia perché frequentava la facoltà di Giurisprudenza. Perché bastava questo, a quel tempo, per farsi etichettare come “fascista”. A Maria non interessava con chi era stato visto ripassare una lezione o scambiarsi gli appunti. Gli interessava come si comportava. E lui, a quanto diceva lei, si comportava bene. Ma questo per i compagni, i suoi amici, era semplicemente assurdo, inconcepibile. Ciccio ora è un apprezzato giornalista e questo lo deve esclusivamente a tua madre. In generale Maria è stata molto liberale nei rapporti interpersonali. Ha sempre avuto una tendenza a mettersi nei panni dell’altro, ad assumere il punto di vista del suo interlocutore. E questo in politica era considerato un difetto, ma a lei non importava. Detestava l’arroganza di chi si sentiva dalla parte del giusto».
Ho voluto sapere da Daniele come si sono conosciuti, forse per non pensare alle Br, al sequestro moro, a Igor, ai servizi segreti, e a tutte quelle informazioni che mi aveva vomitato addosso a Punta Eolo. Volevo che mi raccontasse cosa facevano insieme. Di che cosa chiacchieravano. Ha iniziato a parlare solo quando l’ho lasciato in veranda per andare a mettere in tavola la cena, quasi avesse bisogno di non distrarsi per ricordare.
«Venne a La Fede, la cantina di porta Porta Portese di Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann. Avevamo messo in scena il Risveglio di primavera di Wedekind. Era il 1972. Ci siamo conosciuti lì. Mi disse che lo spettacolo le era piaciuto molto, ma anche che assolutamente ignorante sul teatro d’avanguardia. Mi chiese di farle da maestro. La prima lezione gliela diedi immediatamente. Il termine “avanguardia” è un termine improprio, dissi imitando uno di quei professori isterici che insegnavano all’accademia. Le avanguardie riguardano e si fermano a quelle storiche del primo Novecento. Da ora in poi voglio sentirti parlare di “sperimentazione” o di “ricerca”. Lei scoppiò a ridere e mi assunse come suo insegnante personale».
Daniele mi ha detto che a quel tempo era un giovane attore. Si era iscritto all’Accademia d’Arte Drammatica, ma ben presto smise di frequentare perché riteneva quel sistema d’insegnamento superato. Non teneva conto dei sommovimenti politici e sociali, né dell’energia combattiva che il teatro intendeva liberare per partecipare attivamente al trionfo delle ideologie, alle battaglie del femminismo, alle rivendicazioni del mondo gay, all’amore libero, alla libertà delle droghe. Iniziò a frequentare le cantine teatrali dove le compagnie altro non erano che gruppi formati perlopiù da amici, amanti, sorelle, fratelli e molto raramente da scritturati. Un po’ dei clan che si raccoglievano intorno a un’identità di vedute e a un desiderio di esprimersi tramite il teatro. Tutti facevano tutto. E non solo per via di una libera e consapevole scelta. Le scarse possibilità economiche imponevano che chi contribuiva a mettere in scena il testo potesse avere voce in capitolo. Così, anche se lo spettacolo era siglato dal nome del regista, veniva considerato un’elaborazione collettiva.
Daniele, da parte sua, ricorda per filo e per segno il loro primo appuntamento al Beat 72. «Si chiamava così», mi ha spiegato subito dopo essersi complimentato per l’ennesima volta della riuscita del mio piatto, «perché “beat” era una parola magica che coniugava cultura e stili di vita, e 72 perché si trovava al numero 72 di via Gioacchino Belli». Aveva un ingresso molto piccolo, ha detto, con una stretta scala che andava giù ripidissima. Si scendeva e c’era una specie di piccolo antro che serviva da biglietteria, un corridoio usato come foyer e poi tre stanze in successione, ad arcate. Un’altra sala, attigua all’ultimo di questi vani, serviva per deposito e camerini. L’unica entrata, e quindi anche l’unica uscita, era la porticina in alto. «Era novembre 1972, la sera del debutto di uno spettacolo che immediatamente diventò celebre e fu tra quelli italiani più visti anche all’estero: Le 120 Giornate di Sodoma di Giuliano Vasilicò. Il pubblico della prima era molto irriverente, dava pacche sul sedere agli attori scatenandosi in commenti salaci, tanto erano tutti amici. Vasilicò scompose il testo di De Sade sintetizzandolo in ventuno scene immerse in un buio totale solcato da fasci luminosi. Maria», ricorda Daniele come se fosse successo la sera prima, «rimase colpita dall’interazione tra i frammenti testuali, gli interventi musicali martellanti ed il ritmo impresso, tutto scandito sul vorticoso movimento dato ai carrelli che trasportavano gli attori. Una sinfonia di fantasmi lussuriosi che si materializzavano dal nero e giravano vertiginosamente alla luce, per poi ritornare ad essere ingoiati dalle tenebre. Una rappresentazione che indubbiamente colpiva per la centralità trionfale accordata al corpo dell’attore. Un corpo nudo, ovviamente, perché era uno dei più importanti elementi alla base del teatro sperimentale».
Con Daniele mia madre si vedevano quasi esclusivamente a teatro, almeno così ha detto. Lei sempre tra il pubblico, qualche volta con me in braccio, addormentata. Lui spesso sul palcoscenico. Nel 1973 debuttò nel Pirandello, chi? di Memè Perlini e si ricorda che mia madre gli ha regalato un enorme mazzo di margherite. «Hai letto i Sei personaggi?», mi ha chiesto. «Immagina di addormentarti e di sognarli. Questo era lo spettacolo. Dei Sei personaggi rimanevano brandelli. C’era una grossa invenzione visiva. C’era il personaggio-figlia sempre impegnato in esercizi fisici molto difficili e complicati, noi attori truccati vistosamente, suggestioni futuriste e surrealiste, con un sguardo privilegiato alle arti plastiche. Ricercare i Sei personaggi era veramente arduo… quello che bisognava fare era lasciarsi andare al flusso onirico che colpiva lo sguardo dello spettatore, e questo lo spettacolo riusciva perfettamente a permetterlo».
Daniele ha detto di averle fatto conoscere pure Mario Ricci. Io ho ammesso di non averlo mai sentito nominare e lui mi ha spiegato che in quegli anni era molto famoso perché strutturava il suo lavoro come un gioco: prendeva un testo, lo smontava, dopodiché poteva utilizzarne anche solo delle immagini. Mi ha fatto l'esempio di Moby Dick, che sembrava ambientato nell’antro delle streghe di un parco giostre, completamente realizzato con scenografie di cartone dipinto. "Nel finale", ha raccontato, "l’enorme bocca di Moby Dick ingoiava il capitano Achab, intento per buona parte del tempo della rappresentazione a giocare al solitario con dei grossi mazzi di carte, o a scrutare l’illusorio orizzonte con un cannocchiale. A Maria piaceva tantissimo perché analizzava, scomponeva e si irrobustiva con l’immissione di una visione personalissima del mondo. E anche se a volte le proposte vacillavano per mancanza di adeguati supporti teorici, c’era una grande forza scenica e visionaria che l’affascinava. Ricci divenne il suo autore teatrale preferito».
Io non ho voluto contraddirlo più di tanto, ma da quel che so io, mia madre eri "fissata" per il Living Theatre. Considerava Paradise, now!, che avevi visto con papà ad Avignone nel 1968, un percorso politico spirituale da seguire. Un percorso da compiere per tappe, sull'esempio dei rituali religiosi, dove la liberazione di tutti gli uomini, rappresenta l’ultimo atto, l’ultimo gradino di una scala simbolica verso la rivoluzione.
Daniele ha detto che lei non gliene ha mai parlato, spiegandomi che il posto più politicizzato che frequentavate insieme era Spazio Zero a Testaccio. Che era un costituito da un tendone da circo, senza riscaldamento e dove si moriva, letteralmente, di freddo. «Tua madre in questo spazio si sentiva a casa», ha sottolineato Daniele. Lui meno. E a un certo momento decise che era arrivato il momento di partire. Se ne andò per un po’ in Toscana, poi lasciò l’Italia. E l’addio a te è impresso nella sua memoria come se il tempo si fosse fermato.
«Ancora ho negli occhi le parole di quella sera», mi ha detto. «Di quando mi passò a prendere con la sua Renault4 rossa, sventolando quei due biglietti, mentre suonava il clacson con la sigaretta in bocca. Con i capelli ribelli e tutti quegli anelli alle mani che quasi le impedivano di prenderci per mano. Ancora me la ricordo. E nelle orecchie risento la colonna sonora di quella giornata. Che è iniziata con Touch me dei Doors ed è finita con il Testamento di Tito mentre riflettevo sull’ultima discussione che avevamo avuto. Tua madre mi passò a prendere a Pontedera, dove mi ero rifugiato nell’ultimo mese. Era marzo del 1973. La sera prima avevamo litigato al telefono. Continuavo a sostenere che eravamo diversi, perché io sono comunista. E lei anarchica. O meglio, io forse sono più anarchico di lei, sempre che ci siano dei gradi di anarchia, ma darle ragione quando mi diceva che lo siamo tutti mi dava fastidio. Per fare pace mi propose di andare al concerto di De Andrè».
A questo punto Daniele si è fermato. Forse non sapeva se era il caso di continuare. O forse voleva ricostruire i pensieri di quel giorno in maniera logica.
«Forse ero cinico, forse troppo. Ma l’amore rende cinici, è troppo grande per non esserlo, si rischia di morire dentro prima che fuori. L’anarchia è anche quella del non divenire, non divenire per essere sempre lo stesso, come fosse quella rivoluzione permanente che Bakunin predicava perché non cambiasse nulla nell’ordine, ma che dico ordine, del non governo di nessuno, perché l’animale che è in ogni uomo non arrivasse a voler comandare sugli altri. Fermarsi un gradino prima e festeggiare su quello scalino con una rivoluzione permanente. Aveva ragione, ma non glielo ho mai detto, perché davanti a lei dovevo sostenere che Lenin ha applicato il migliore dei mondi possibili e che gli anarchici sono solo degli schiavi dei pensieri e fanno poca azione perché è faticosa. Un po’ come la differenza fra i politici e i sindacalisti, i primi parlano, gli altri si sporcano le mani con gli operai. Eppure così io volevo vivere. In perenne rivoluzione con me stesso per non cambiare più. Mi piaceva essere così, ascoltare e non parlare, sperare ma non aspettare, cantare e non aprire bocca, amare e non dichiararlo. Pavido e sicuro al tempo stesso. Era la giusta strada per morire come Anna Karenina, sotto il treno della fatalità senza aver mai comprato un biglietto per partire».
«Quella mattina il mio umore era nero e mi sembrava che nulla potesse farmi uscire da quella spirale di pessimismo su ogni futuro pensabile. Ma era arrivata lei, con i due biglietti per l’Eden, o meglio per la migliore approssimazione del paradiso terrestre di quei due sfigati di Adamo ed Eva, traditi da un banale morso a una mela bacata. Stavamo per andare a sentire, vedere, godere e vivere Faber».
«Volevamo distruggere, ricostruire e curare il nostro nuovo mondo, ma non ci eravamo accorti che il mondo che volevamo costruire era quello che iniziava nella zona occipitale del nostro cervello e finiva sulle papille della lingua, proprio un attimo prima di dire qualsiasi cosa o tradurre un qualsivoglia idea. Era amore, semplicemente amore. Ora lo posso dire, senza rischio di sbagliare. Eravamo una sola idea e un solo inutile orgoglio di non voler ammettere che eravamo una sola cosa. Che stupidi. Ma forse è stato proprio quel volersi sentire diversi, anche dalla propria anima gemella, che ci ha reso unici, veramente unici ai propri occhi, orgogliosi di un’artefatta e presunta diversità».
«Siamo arrivati che tutti erano già lì, il biglietto non serviva perché nessuno l’ha controllato, tanti erano quelli che avendo vantato il diritto di poter ascoltare senza pagare, fugavano la necessità sovrastrutturale di brandire un pezzo di carta per vantare un diritto che era giustamente di tutti. Di quel concerto ricordo perfettamente la sua pelle, i suoi occhi e la sua commozione, intima, forte e sconcertante. Portava con sé un corpo che non aveva ancora trovato quel piccolo barlume finale che le avrebbe consentito di esplodere in un urlo. “Di respirare la stessa aria dei secondini non mi va, perciò ho deciso di rinunciare alla mia ora di libertà”, cantava lui dal palco e lei stringeva il pugno, quasi a lacerarsi le dita contro gli anelli. “se c’è qualcosa da spartire fra un prigioniero e il suo piantone, che non sia l’aria di quel cortile, voglio soltanto che sia prigione”, continuava lui e Maria quasi piangeva di rabbia. Forse perché sua sorella, tua zia, era stata beccata dalla polizia qualche giorno prima perché aveva un fucile dentro l’auto, e rischiava di finire in galera. La amavo più di quanto le parole avrebbero potuto descrivere e il mio cinismo era sommerso dalla bellezza indomabile di quel momento. Ero preda dell’amore e della voglia fisica di stringere quel corpo e farlo una cosa sola con il mio. “Quando in anticipo sul tuo stupore, verranno a chiederti del nostro amore. A quella gente consumata nel farsi dar retta, un amore così lungo, tu non darglielo in fretta”. De André continuava a cantare, non si rendeva conto cosa significava per me quella frase. Ero dilaniato dal dolore indotto da quel quadro che aveva creato Faber. Una tela di Fontana con un taglio netto e verticale, inesorabile e ineluttabile come la morte del mio cuore in quel momento. Fui costretto a pensare ad altro da un’improvvisa manifestazione degli operai della Piaggio. Che scandirono, con un certo disappunto generale, slogan contro i padroni e per la libertà dagli oppressori. Fabrizio non era in disaccordo e si era fermato, ma si leggeva nei suoi movimenti e nelle boccate di sigaretta un po’ più nervose, mentre era seduto sul suo piccolo sgabello con accanto un bicchiere di wisky, che l’arte e la poesia non dovevano essere profanate dalla lotta di classe. Forse perché, come me, pensava che la lotta dei deboli e degli oppressi già trasudava da ogni verso delle sue canzoni. Bastava ascoltare. Ma le parole di un altro non sono le proprie e il desiderio di espressione aveva tutto il diritto di essere ascoltato.
«“Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato le vostre 1100. Anche se voi vi credete assolti siete per sempre coinvolti”. A questi versi lei si mise a piangere. Sentiva il dolore e la rassegnazione generazionale di un esercito di incompresi. Io no, perché credevo, e credo ancora, che un esercito non può essere incompreso, ma solo pavido. Per me lottare era la prima cosa, per Maria il pensiero di perdere diventava un alibi per piangersi addosso e trovare una giustificazione alla compassione per gli altri e all’autocommiserazione di se stessi».
Daniele si è interrotto e mi ha guardato come se ci fossi stata Maria al mio posto. Con severità mista a quella tenerezza che forse non le ha mai dimostrato ha ripreso: «Questo ricordo. Questo voglio ricordare e non il fatto che abbiamo litigato in macchina anche dopo il concerto. Voleva fare l’amore, ma solamente per soddisfare l’istinto di dare un senso a quel sentirsi soli, con il bisogno di essere parte di un altro mondo, anche fisicamente. L’allontanai da me senza spiegarle il perché e lei lo prese come un rifiuto. Mi accusò di non volerle bene, mi disse che non le piacevo. Io non sono riuscito a spiaccicare una parola mentre avrei dovuto spiegarle che volevo proteggermi. E proteggerla. Nei giorni seguenti non ci siamo né sentiti né cercati. E me ne sono andato via, lontano».
Daniele mi ha raccontato che mise un po’ di roba nella sacca e se andò a Oslo. Voleva fare la sua esperienza all’Odin Teatret, il gruppo fondato nel 1964 dal regista italiano Eugenio Barba e dagli attori norvegesi Else Marie Laukvik e Torgeir Wethal. Voleva mettersi alla prova. Mi ha spiegato che il metodo di Barba prevedeva un intenso allenamento fisico, che doveva preparare alla recitazione, ma anche selezionare le persone più motivate e dotate di autodisciplina. L’allenamento o training era inteso non solo come mezzo per acquisire particolari abilità  tecniche, ma soprattutto come processo continuo di definizione della propria presenza scenica. Girovagò parecchi mesi prima di tornare a Roma.
Riitrovò mia madre alla Magliana. C’era un contro-festival e lei doveva scrivere un pezzo. Daniele conserva ancora nel portafoglio una fotocopia del ritaglio di giornale datato 22 giugno 1974. «La Magliana non è un quartiere, è una maledizione, scrivevamo più di un anno fa su Paese Sera. Ieri sera il contro-festival di piazza Vico Pisano ha ridato a quella «maledizione» una dimensione umana. II concerto, organizzato dal comitato di quartiere e da Stampa Alternativa ha assunto quasi subito la caratteristica della festa popolare. II confronto con Villa Borghese insomma non c’è stato. C’erano gruppi e cantanti che facevano la stessa musica, ma il pubblico, lo scenario, lo spirito era diverso. Piazza Vico Pisano è uno stretto corridoio fra due lunghe file di palazzi dormitorio soffocante, disumano. In questo scenario, che è la fotografia di una Roma sbagliata, c’era un piccolo palco su cui, davanti a un pubblico composto da giovani, donne, vecchi, lavoratori, e tanti bambini si sono susseguiti i «numeri» dello spettacolo. Il compito di aprire è toccato a Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Il primo venerdì aveva disertato il prato verde di villa Borghese, ieri ha spiegato che suonare alla Magliana, in un quartiere popolare, fra la gente che ogni giorno è costretta a combattere i mille problemi di un vero e proprio ghetto in cui imperversano la malaria e l’epatite ha ridato alla sua musica una dimensione non asettica, non neutrale. Il secondo che nell’intervento che ha preceduto il suo numero ha rivendicato quella libertà di artista che lo ha spinto a esibirsi anche a Villa Borghese, è stato applaudito freneticamente quando ha suonato uno dei suoi successi popolari, «Roma capoccia». Poi è toccato all’altro «pezzo forte», Alan Sorrenti, anche lui in polemica con la manifestazione «ufficiale». Il «clou» è stato però rappresentato dal «Trium Delirium», venti ragazzi francesi arrivati a bordo di tre pulmini con donne e bambini. «In Francia - hanno spiegato - viviamo tutti in una comune, qualcuno gira suonando, altri coltivano la terra». Da Roma andranno verso est per fare il giro del mondo. Alla manifestazione aveva aderito anche Edoardo Bennato. Il «contro-festival», che ha suscitato un dibattito molto serrato sulla musica fra gli stessi artisti che si sono esibiti, si è concluso a tarda notte. Fino alla fine piccoli e grandi hanno vissuto una serata nuova, diversa, che forse ha rappresentato una occasione unica per riportare la musica a contatto con i problemi reali di chi l’ascoltava»1.
Da quella sera hanno ricominciato a frequentarsi. Lui, mi ha detto, che l’aiutò a riprendersi dallo shock della strage di Brescia di piazza della Loggia del 28 maggio. Era in corso una manifestazione contro il terrorismo organizzata dai sindacati e da un comitato antifascista. Ci andarono molti suoi compagni e quello che le raccontarono fu un incubo. Quel giorno morirono otto persone. Altre 94 rimasero ferite.
Iniziò una storia. Una storia strana, che solo mia madre poteva voler vivere. Una storia di rinunce e di speranze, di tenerezza e di rabbia, di attesa e di attimi rubati. «La nostra non era una relazione fisica», ha ribadito Daniele mentre mi aiutava a sparecchiare. «Eravamo impegnatissimi, avevamo sempre tantissime cose da fare. Io a teatro, lei al giornale, con te, con Moira, le manifestazioni. E quando c’incontravamo parlavamo, discutevamo, litigavamo per poi starcene anche due o tre ore sdraiati sul divano in silenzio semplicemente a giocare l’uno con le mani dell’altro. E poi diceva di essere diventata allergica a qualsiasi tipo di rapporto sentimentale che potesse catalogare le persone in base allo stato sociale: coniugata, single, fidanzata. Io invece ero alla ricerca della donna della mia vita. Volevo mettere su famiglia, volevo un figlio. E così stavamo insieme senza legami».

 
Note:
1 Carlo Rivolta, Paese Sera, 23 giugno 1974

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