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Capitolo 10

«Daniele era un egoista. Aveva trovato quella santa di tua madre e l’ha massacrata. Sì, perché tua madre era santa», Moira si fa il segno della croce. «Solo una santa può aver avuto un sentimento così benevolo per i disonesti. E Daniele era uno di quelli. Se n’è approfittato fino all’ultimo per provare a se stesso quanto era potente. Recitava anche nella vita. Ti ha portato questi diari perché in cambio vuole qualcosa da te. Sei sicura che non ti ha chiesto niente? Fai mente locale Sole mio, sforzati. Deve averti fatto capire che si aspetta qualcosa da te».
Prima ancora di leggere quello che ha scritto mia madre, zia Moira vuole capire perché Daniele ha aspettato così tanto tempo prima di restituire i diari. Appena arrivata ha iniziato ad interrogarmi. Senza nemmeno aver disfatto la valigia.
«Zia, te l’assicuro. Niente di niente», le rispondo scocciata. Per me Daniele voleva bene a mia madre. Non so se l’amava. Ma sicuramente le voleva bene. E poi, no. Non mi aveva chiesto nulla. Nulla che potesse dargli “potere”, come dice lei. «Anzi», insisto, «è sembrato sinceramente interessato a me, alla mia bambina. Mi ha perfino chiesto se intendevo battezzarla con il nome di mamma».
«Lo vedi è subdolo», ribatte lei. «Dà per scontato che tu ti comporterai come tua madre che non perdeva occasione per ostentare la sua diversità rispetto agli altri e a lui in particolare, che è un ateo della peggiore specie. Maria per questo ha voluto battezzarti».
«Va bene», le faccio io. «ma questo cosa centra? Neanche lo conosceva Daniele quando mi ha battezzato. E poi scusa che male c’è se gli ricordo mia madre?».
«Ti dico solo di stare attenta. Rischi d’impazzire come lei», ribatte.
Cinque minuti di silenzio sono tanti. Troppi, se già sai che ti sta arrivando un’altra stilettata al cuore. «Vuoi sapere che cosa le ha fatto?», tuona Moira. Senza neanche aspettare la risposta inizia a parlare. «Voleva vedere fino a che punto poteva arrivare. Poco per volta, un po’ al giorno, l’ha esaurita. L’ha fatta consumare», ripete, «come una candela. Stava male Maria quando è morta. Era depressa. Se proprio lo vuoi sapere, quando ci hanno telefonato per avvertirci della tragedia io pensato che si era suicidata. E quando hanno liquidato la faccenda come un incidente, ho tirato un sospiro di sollievo. Ti assicuro che dietro non c’è stato alcun complotto. Come invece va sostenendo l’attore!».
«Zia, ma che stai dicendo? Daniele vorrebbe far riaprire il caso, per diventare più famoso di quello che è, usando me?», le chiedo.
«Perché no? Magari vuole mostrarsi al suo pubblico senza indossare i panni dei personaggi che interpreta sul set. Se la notizia circola va a finire su tutti i giornali, lo chiamano in televisione. Può diventare un opinionista. E forse in questo momento ha bisogno di ravvivare la fiamma della popolarità o forse semplicemente si è stancato di fare l’attore», risponde mia zia.
«Magari», continuo io, «vuole semplicemente che la verità venga fuori».
«Ecco lo vedi che c’è riuscito anche con te?», dice preoccupata Moira. «Ti ha portato il diario affinché tu ti convinca dell’ipotesi del complotto. Vuole che tu indaghi sulla morte di tua madre». Poi con voce implorante: «Ti prego Sole non farti manipolare da quell’assassino. Non fargli uccidere Maria per la seconda volta».
Voglio cambiare discorso. Le prendo la mano e me la metto sul pancione. La mia bimba si è mossa e mi piace condividere quella meravigliosa sensazione con Moira. Per dimostrarle quanto le voglio bene. Zia Moira, l’ho sempre chiamata zia anche se non abbiamo alcun tipo di legame familiare, è stata sempre presente nella mia vita. Sia nei pochi anni che c’era ancora mamma, sia dopo.
«Te lo ricordi quando aspettavamo mamma sotto la redazione del giornale?», chiedo. «Ci divertivamo un mondo a suonare con il clacson la musica degli slogan che si cantavano durante le manifestazioni. Lotta, lotta lotta non smetter di lottare; per una casa vera affitto popolare». «Ellecì / non è qui / fa la corte al PCI...», continua lei. Ellecì, ovviamente sta per Lotta Continua. E zia Moira ce l’aveva terribilmente con quelli che ne facevano parte. La cosa che non perdonò mai al gruppo di Sofri fu il tentativo di boicottaggio, da parte dei militanti di Lotta Continua della sezione Cinecittà di una grande manifestazione femminista irrompendo nel corteo al grido di “E ora / e ora / la fica a chi lavora”. L’assalto venne respinto e si creò, secondo mia zia, una frattura che degenerò nello scioglimento del movimento. Durante il secondo Congresso nazionale di Lotta Continua, a Rimini, ci fu un duro scontro fra il quadro dirigente e le donne. Il movimento, pur senza dichiarazioni formali, si dissolse.
Proprio in quel momento compare sulla porta zia Carla che nel frattempo aveva disfatto la valigia e si era fatta la doccia. «Ancora con queste storie, Moira», chiede con uno sguardo annoiato. «Non c’è nulla di più deprimente di sentire ripetere da una vecchia le stesse cose da almeno trent’anni». E per l’ennesima volta anche zia Carla dice: «Sono state le femministe del movimento ad iniziare. Volevano sfilare separate. Il servizio d’ordine non voleva perché lo riteneva pericoloso e ha cercato di farle desistere». «Sarebbe meglio dire: represse», la corregge Moira. «Compagno Sofri, sabato scorso l’avete fatta grossa. E il movimento delle donne non lo dimenticherà», continua zia Carla facendo il verso a lei e a mamma che tiravano sempre questo slogan ogni volta si parlava di femministe e Lotta Continua.
«Ma smettila», replica zia Moira. «Come fai a parlare tu che eri la regina della doppia militanza?».
Zia Carla fa un gesto con la mano che è a metà strada tra un va a quel paese e continua continua tanto non dici sempre le stesse cose. «Doppia militanza?», insiste zia Carla. « La militanza politica e la militanza femminista erano una “necessità” per chi come me pensava che si dovesse costruire di una società più giusta».
«Il problema», continua zia Carla, «è che la vostra parola d'ordine era “distruggere i maschi”. Ed io non mi sono mai sentita a mio agio a sentirla pronunciare». Poi si rivolge a me, quasi a giustificarsi. «Avevo anche la “sventura” di essere felicemente fidanzata, e durante le riunioni del collettivo era quasi una colpa. Le compagne in qualche modo scimmiottavano le riunioni di autocoscienza che già erano una pratica tra le femministe e ricordo quei nostri incontri come momenti molto faticosi. Mi sentivo come un'aliena: le compagne erano molto critiche sugli uomini, ma io non avevo nessun problema nella mia relazione sentimentale. Molto più interessante era invece il lavoro che facevamo con le studentesse: organizzavamo incontri di studio, di presa di coscienza, manifestazioni per la contraccezione, l'aborto. Il rapporto con gli altri collettivi femministi della città invece era piuttosto di competizione più che di collaborazione. Per quanto riguarda la doppia militanza era una pratica quotidiana, non so come dire altrimenti, continuavamo ad essere delle militanti dell'organizzazione per i "grandi temi politici" e di pari passo "lavoravamo" come e con le donne; un doppio lavoro, insomma. Tutto questo è andato avanti fino agli inizi dell'estate '76, fino alle  elezioni politiche in cui Lotta Continua si era presentata autonomamente, poi da quel momento la mia militanza politica all'interno di Lotta Continua è andata scemando giorno dopo giorno. Non abbiamo smesso, invece, di riunirci come donne di Lotta Continua, ma più per il rapporto di amicizia che ci legava che per un progetto politico specifico»1.

«Se solo le vostre riunioni vi avessero fatto capire che da angeli del focolare vi eravate trasformate in angeli del ciclostile…», borbotta Moira. Poi esplode. «È vero lottavate, ma quasi esclusivamente per l'aborto e per altri obiettivi legati alla politica tradizionale. Scendevate in piazza con parole d'ordine dettate dai vostri uomini, cercando di trascinare in questa lotta le donne del femminismo autonomo. Noi, invece facevamo autocoscienza in piccoli gruppi, alla ricerca di in un nuovo modo di far politica, non gerarchico, distante anni luce da quello della lotta politica della tradizione marxista. Il famoso partir da sé». E rivolta a me con il suo fare da maestrina mi fa: «È stata la prima pratica innovativa del femminismo autonomo, la rivoluzione pacifica delle donne legata alla presa di coscienza, allo scambio, all’ascolto dell’altra, alla rimessa in discussione della società patriarcale, del rapporto con l’uomo, nel pubblico e nel privato».
«Guarda che non erano facili i rapporti neanche tra voi femministe», tuona zia Carla dopo essersene stata ad ascoltare in silenzio. «Mica scherzavate al Pompeo Magno. Vuoi negare che si scatenò una primordiale contesa tra etero e non? Tutte concordi nella scelta del separatismo politico dal mondo degli uomini, ma divise sulla pratica delle relazioni. Quella che si respirava lì da voi mica era certo una bella aria».
«Beh, voi siete riuscite a far sciogliere Lotta Continua…».
«Non è proprio così, Moira. E lo sai bene!»!
«Avete letto il giornale oggi?», chiedo a tutte e due. «No? Beh, fatelo. Forse una volta per tutte non ne parliamo più di questa storia». Su Repubblica è uscita questa recensione di Nello Ajello su un dibattito a proposito dello scioglimento di Lotta Continua apparso su Micromega. «Rimini, primi di novembre del 1976. Nel corso del suo secondo congresso, Lotta continua – uno dei movimenti più vivaci della sinistra estrema – si dissolve in maniera che a molti pare inspiegabile». L’Unità, organo di quel Pci che con la compagine politica di Adriano Sofri e Guido Viale non è mai stato tenero, rileva che i congressisti «hanno sostituito le emozioni alle mozioni» e scorge nell’evento una «crisi della militanza di estrema sinistra». Dal suo canto Lotta continua – il quotidiano che, nato del ‘72, fa capo al movimento – rinunzia a fornire «un verbale esatto delle emozioni che ci hanno travolti». A Rimini, aggiunge con spontanea iperbole, si sono vissuti «cinque giorni tra la vita e la morte», fra «l’angoscia e la gioia». Quei giorni di novembre non erano che l’epilogo di una situazione esplosa all’interno del movimento quasi un anno prima, durante un corteo in sostegno della legalizzazione dell’aborto, tenutosi il 6 dicembre 1975. Lotta continua vi partecipò con un proprio striscione. A un certo punto, le femministe che militavano nel movimento cercarono di separarsi dagli uomini, rivendicando una loro autonomia. Il servizio d’ordine di Lotta continua le ostacolò. Sugli incidenti che ne nacquero si sarebbe dibattuto a lungo sia in Lotta continua che nell’intera galassia della sinistra radicale. Così scrisse, a botta calda, il Quotidiano dei lavoratori: «Compagno Sofri, sabato scorso l’avete fatta grossa. E il movimento delle donne non lo dimenticherà».
Le zie s’interrompono e scoppiano a ridere. È citata proprio la frase che avevano detto prima. Moira e Carla riprendono a leggere. «Se ne avrà la prova a Rimini, appunto: lì sarà proprio l’ala femminista del movimento, se non a causare la sua fine, certo a forzarne i tempi. Nel numero che è oggi in edicola la rivista MicroMega dedica all’evento un diffuso dibattito cui partecipano quattro ex esponenti di Lotta continua: Guido Viale, lo storico Giovanni De Luna, Franca Fossati, femminista storica, lo scrittore Erri De Luca, a suo tempo fra i dirigenti del servizio d’ordine. Tutti d’accordo nel collocare in quel novembre di trent’anni fa l’epilogo del movimento (mentre Lotta Continua-giornale resisterà fino al 1981). La discussione verte, invece, sulla diagnosi politica del “caso”, sulle sue ripercussioni a breve termine e perfino sulla modalità degli scontri che lo precedettero». De Luna si sofferma, ad esempio, sul rilevante «significato politico e simbolico» dell’incidente del ‘75. Ricorda che, in un’assemblea svoltasi a Torino subito dopo, la stessa collocazione dei partecipanti rifletteva una drastica separazione: «In alto c’era la macchia scura degli operai, in basso quella delle donne; poi c’erano gli studenti, che non sapevano dove stare. Nel centro c’era una dirigenza schiacciata dall’incomunicabilità che si respirava in quell’aula». Ne nasce l’esigenza di fare luce sulle responsabilità di questa incomprensione. E qui lo storico accenna a un precedente. Risalendo all’atteggiamento tenuto dal movimento durante la campagna per il referendum sul divorzio (1974), trova che quello fu ritenuto un diversivo per «distrarre gli operai dalla dimensione salariale della lotta»: qualcosa di estraneo ai loro interessi. Si fece poi marcia indietro, e alla rigidità subentrò «un’apertura senza mediazioni»; ma il male era ormai senza rimedio. Operai e femministe «non si parlavano più». «Sul problema delle donne – incalza Franca Fossati – Lotta Continua ebbe una tardiva capacità d’ascolto». E, quando la nascita del femminismo diventò una realtà globalmente accreditata, ecco che esso assurse, per le donne del movimento, «un orizzonte totalizzante», determinando «un cambiamento nella nostra vita e in quella di molti uomini». Una questione dall’evidente «risvolto esistenziale». Si sfasciarono, ad esempio, «molte coppie». Al riparo di un falso operaismo – qui la testimonianza della Fossati si fa accorata – lo stile di vita nel movimento prendeva «tutti i difetti peggiori della famiglia operaia patriarcale»». Uno spirito separatista nasceva dai fatti. E ne derivava anche una certa dose di settarismo: «Noi, come tutte le neofite di un movimento, vedevamo le donne che non stavano con noi come traditrici. E fu molto ingiusto e crudele». Autocritica? Non è soltanto la Fossati a farne. In prossimità del suo epilogo, sostiene ad esempio Viale – d’accordo, in questo, con De Luna – «il movimento stava perdendo la capacità di capire quello che succedeva nel paese». E, in particolare, «l’esplosione del movimento femminista è stata una contraddizione lacerante, che ha trovato l’organizzazione impreparata». Per capire gli effetti che avrà in Lotta continua la contraddizione uomo-donna, occorre comunque tener presente che fra militanti si svolgeva allora una «vita in comune», animata da una contiguità di sentimenti. Se non il più polemico, certo il più controversiale fra i partecipanti al dibattito è Erri De Luca. Egli discorda da Giovanni De Luna che vede alla base della decadenza di Lotta continua «l’esaurimento della forza operaia nelle fabbriche». Pone piuttosto alla base della crisi il mancato (benché promesso) sorpasso del Pci sulla Dc alla elezioni del ‘76 e le insignificanti percentuali raccolte dalla sinistra extraparlamentare. Lo scrittore quasi non riesce ancora a crederci. «Un’organizzazione rivoluzionaria» ed extraparlamentare «che si lascia scompaginare dal risultato elettorale, è abbastanza ridicolo». A quel punto, le dimissioni del «gruppo dirigente di Lotta continua» erano nei fatti. Anzi, rivela De Luca, erano state decise già un anno prima. Lotta continua e la violenza. Se quel movimento sia stato o no un incunabolo del terrorismo. Se il suo servizio d’ordine abbia rappresentato o meno un «corpo separato» prendendo la mano al movimento; se i suoi effettivi fossero armati o inermi. Temi scottanti che il dibattito di MicroMega ripropone con efficacia. I reduci si accalorano nel rievocarli. A volte si dividono con nettezza fra autocritici e «auto-innocentisti». Sempre tenendo presente – sono parole di Viale – che fra i militanti d’un tempo «si sono mantenuti poi dei rapporti di forte solidarietà»2.
Nessuna delle due ha qualcosa da commentare. Strano. «Perché non vai a comprare MicroMega?», mi chiede Moira. Vuole rimanere sola con zia Carla e parlarle di Daniele. Lo so. «Va bene», dico andando a cercare la borsa. «Ci vediamo più tardi». Già immagino che testa le farà. Zia Moira ha sempre detestato Daniele. Anche quando mamma era ancora viva. Forse era gelosa di quel rapporto o molto più semplicemente detestava i maschi. Lei era una femminista convinta e non aveva mai trovato, così sostiene lei, un uomo degno della sua testa, del suo cuore e del suo corpo.
Si erano conosciute al collettivo femminista di via Pompeo Magno, zia Moira e mamma. Maria ci andava per aiutare le ragazze madri e zia era una delle fondatrici. Così simili e così diverse, divennero subito amiche. Avevano capito che erano complementari l’una con l’altra. Moira le fece da testimone, insieme a zia Carla che è la sorella di mia madre, quando si sposò con papà. Il 10 gennaio del 1969 mise la firma sul quel contratto di matrimonio e prese alla lettera l’impegno che si era assunto con quell’autografo. Non smise mai di vegliare su mia madre per impedire che Luca le facesse del male. Voleva proteggerla da tutto e da tutti, quando invece era lei, proprio lei, che aveva bisogno di protezione, fragile e sensibile com’era. Una fragilità che nascondeva a meraviglia dietro quella scorza dura di femminista, incazzata con il mondo.
Stavano sempre insieme zia e mamma. Alle assemblee, alle manifestazioni, nel tempo libero. Maria se la portava dietro pure quando doveva fare i suoi servizi. Le piaceva sentire il suo punto di vista. Moira era una psicologa. Campava facendo sborsare fior fior di quattrini a quelle signore ingioiellate e impellicciate che pensavano di poter risolvere i propri problemi sentimentali con una seduta d’analisi. La stragrande maggioranza di quei soldi venivano poi usati per le battaglie in difesa delle donne. Bisogna andare nei quartieri di periferia e parlare con le madri, le figlie, le nonne. Convincerle che quello che stavano subendo era ingiusto, che si poteva cambiare la loro condizione. Che se un marito le picchiava potevano lasciarlo, denunciarlo. Che potevano scegliere cosa fare della loro vita. Poi c’erano le manifestazioni, i cortei, i sit-in. Quando ero piccola mi piaceva sentir raccontare da zia Moira dell’8 marzo. E lei ogni volta che glielo chiedevo tirava fuori la storia della manifestazione del 1972. Quella di Campo de’ Fiori che secondo lei fu il vero primo otto marzo femminista. «Cantavamo “Noi siamo stufe di abortire/ ogni volta col rischio di morire/ il nostro corpo ci appartiene/ per tutto questo lottiamo insieme. Ci dicon sempre di sopportare/ ma da oggi noi vogliamo lottare/ per la nostra liberazione/ facciamo donne la rivoluzione!”. C’era pure Jane Fonda alla manifestazione. Ma quando se ne andò portandosi dietro tutti i fotografi e le telecamere scoppiò il casino», zia modulava la voce come si trattasse di una favola. «Eravamo una settantina ma fu una bambina, Susanna, a scatenare l’ira dei poliziotti. Fino a quel momento erano stati tolleranti, ci sorridevano mentre ci dicevano di restare sul marciapiede. Poi Susanna disse qualcosa e iniziarono le manganellate. Alma Sabatini, la madre del collettivo Pompeo Magno, finì all’ospedale con la testa rotta. Io venni caricata di peso da due guardie e portata sulla camionetta».
Quell’ 8 marzo scesero in piazza per la prima volta anche le lesbiche. Fu Mariasilvia Spolato a fare il primo coming out presentandosi alla manifestazione con il cartello: “Liberazione omosessuale”. E le sue ragioni divennero immediatamente anche quelle di mia madre. Il primo maggio era di nuovo a Campo de’ Fiori, insieme a me piccola e zia Moira, a volantinare. Urlava: “Vogliamo le comuni”, “Abbasso il capitale”, “Il capitale è un grande fallo”, “Abbasso la famiglia”, “Abbasso il fascismo maschile”. Un po’ di curiosi si avvicinarono per sapere chi era a manifestare. E lei rispondeva: “Froci e lesbiche!”. Ma non capirono. Tutto finì a secchiate d’acqua.


Note:
1 Intervista di Maurizia Morini a G.G., 53 anni, insegnante.
2 La Repubblica, 29 settembre 2006

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