«Daniele
era un egoista. Aveva trovato quella santa di tua madre e l’ha
massacrata. Sì, perché tua madre era santa», Moira si fa il segno
della croce. «Solo una santa può aver avuto un sentimento così
benevolo per i disonesti. E Daniele era uno di quelli. Se n’è
approfittato fino all’ultimo per provare a se stesso quanto era
potente. Recitava anche nella vita. Ti ha portato questi diari perché
in cambio vuole qualcosa da te. Sei sicura che non ti ha chiesto
niente? Fai mente locale Sole mio, sforzati. Deve averti fatto capire
che si aspetta qualcosa da te».
Prima
ancora di leggere quello che ha scritto mia madre, zia Moira vuole
capire perché Daniele ha aspettato così tanto tempo prima di
restituire i diari. Appena arrivata ha iniziato ad interrogarmi.
Senza nemmeno aver disfatto la valigia.
«Zia,
te l’assicuro. Niente di niente», le rispondo scocciata. Per me
Daniele voleva bene a mia madre. Non so se l’amava. Ma sicuramente
le voleva bene. E poi, no. Non mi aveva chiesto nulla. Nulla che
potesse dargli “potere”, come dice lei. «Anzi», insisto, «è
sembrato sinceramente interessato a me, alla mia bambina. Mi ha
perfino chiesto se intendevo battezzarla con il nome di mamma».
«Lo
vedi è subdolo», ribatte lei. «Dà per scontato che tu ti
comporterai come tua madre che non perdeva occasione per ostentare la
sua diversità rispetto agli altri e a lui in particolare, che è un
ateo della peggiore specie. Maria per questo ha voluto battezzarti».
«Va
bene», le faccio io. «ma questo cosa centra? Neanche lo conosceva
Daniele quando mi ha battezzato. E poi scusa che male c’è se gli
ricordo mia madre?».
«Ti
dico solo di stare attenta. Rischi d’impazzire come lei», ribatte.
Cinque
minuti di silenzio sono tanti. Troppi, se già sai che ti sta
arrivando un’altra stilettata al cuore. «Vuoi sapere che cosa le
ha fatto?», tuona Moira. Senza neanche aspettare la risposta inizia
a parlare. «Voleva vedere fino a che punto poteva arrivare. Poco per
volta, un po’ al giorno, l’ha esaurita. L’ha fatta consumare»,
ripete, «come una candela. Stava male Maria quando è morta. Era
depressa. Se proprio lo vuoi sapere, quando ci hanno telefonato per
avvertirci della tragedia io pensato che si era suicidata. E quando
hanno liquidato la faccenda come un incidente, ho tirato un sospiro
di sollievo. Ti assicuro che dietro non c’è stato alcun complotto.
Come invece va sostenendo l’attore!».
«Zia,
ma che stai dicendo? Daniele vorrebbe far riaprire il caso, per
diventare più famoso di quello che è, usando me?», le chiedo.
«Perché
no? Magari vuole mostrarsi al suo pubblico senza indossare i panni
dei personaggi che interpreta sul set. Se la notizia circola va a
finire su tutti i giornali, lo chiamano in televisione. Può
diventare un opinionista. E forse in questo momento ha bisogno di
ravvivare la fiamma della popolarità o forse semplicemente si è
stancato di fare l’attore», risponde mia zia.
«Magari»,
continuo io, «vuole semplicemente che la verità venga fuori».
«Ecco
lo vedi che c’è riuscito anche con te?», dice preoccupata Moira.
«Ti ha portato il diario affinché tu ti convinca dell’ipotesi del
complotto. Vuole che tu indaghi sulla morte di tua madre». Poi con
voce implorante: «Ti prego Sole non farti manipolare da
quell’assassino. Non fargli uccidere Maria per la seconda volta».
Voglio
cambiare discorso. Le prendo la mano e me la metto sul pancione. La
mia bimba si è mossa e mi piace condividere quella meravigliosa
sensazione con Moira. Per dimostrarle quanto le voglio bene. Zia
Moira, l’ho sempre chiamata zia anche se non abbiamo alcun tipo di
legame familiare, è stata sempre presente nella mia vita. Sia nei
pochi anni che c’era ancora mamma, sia dopo.
«Te
lo ricordi quando aspettavamo mamma sotto la redazione del
giornale?», chiedo. «Ci divertivamo un mondo a suonare con il
clacson la musica degli slogan che si cantavano durante le
manifestazioni. Lotta, lotta lotta non smetter di lottare; per una
casa vera affitto popolare». «Ellecì / non è qui / fa la corte al
PCI...», continua lei. Ellecì, ovviamente sta per Lotta Continua. E
zia Moira ce l’aveva terribilmente con quelli che ne facevano
parte. La cosa che non perdonò mai al gruppo di Sofri fu il
tentativo di boicottaggio, da parte dei militanti di Lotta Continua
della sezione Cinecittà di una grande manifestazione femminista
irrompendo nel corteo al grido di “E ora / e ora / la fica a chi
lavora”. L’assalto venne respinto e si creò, secondo mia zia,
una frattura che degenerò nello scioglimento del movimento. Durante
il secondo Congresso nazionale di Lotta Continua, a Rimini, ci fu un
duro scontro fra il quadro dirigente e le donne. Il movimento, pur
senza dichiarazioni formali, si dissolse.
Proprio
in quel momento compare sulla porta zia Carla che nel frattempo aveva
disfatto la valigia e si era fatta la doccia. «Ancora con queste
storie, Moira», chiede con uno sguardo annoiato. «Non c’è nulla
di più deprimente di sentire ripetere da una vecchia le stesse cose
da almeno trent’anni». E per l’ennesima volta anche zia Carla
dice: «Sono state le femministe del movimento ad iniziare. Volevano
sfilare separate. Il servizio d’ordine non voleva perché lo
riteneva pericoloso e ha cercato di farle desistere». «Sarebbe
meglio dire: represse», la corregge Moira. «Compagno Sofri, sabato
scorso l’avete fatta grossa. E il movimento delle donne non lo
dimenticherà», continua zia Carla facendo il verso a lei e a mamma
che tiravano sempre questo slogan ogni volta si parlava di femministe
e Lotta Continua.
«Ma
smettila», replica zia Moira. «Come fai a parlare tu che eri la
regina della doppia militanza?».
Zia
Carla fa un gesto con la mano che è a metà strada tra un va a quel
paese e continua continua tanto non dici sempre le stesse cose.
«Doppia militanza?», insiste zia Carla. « La militanza politica e
la militanza femminista erano una “necessità” per chi come me
pensava che si dovesse costruire di una società più giusta».
«Il
problema», continua zia Carla, «è che la vostra parola d'ordine
era “distruggere i maschi”. Ed io non mi sono mai sentita a mio
agio a sentirla pronunciare». Poi si rivolge a me, quasi a
giustificarsi. «Avevo anche la “sventura” di essere felicemente
fidanzata, e durante le riunioni del collettivo era quasi una colpa.
Le compagne in qualche modo scimmiottavano le riunioni di
autocoscienza che già erano una pratica tra le femministe e ricordo
quei nostri incontri come momenti molto faticosi. Mi sentivo come
un'aliena: le compagne erano molto critiche sugli uomini, ma io non
avevo nessun problema nella mia relazione sentimentale. Molto più
interessante era invece il lavoro che facevamo con le studentesse:
organizzavamo incontri di studio, di presa di coscienza,
manifestazioni per la contraccezione, l'aborto. Il rapporto con gli
altri collettivi femministi della città invece era piuttosto di
competizione più che di collaborazione. Per quanto riguarda la
doppia militanza era una pratica quotidiana, non so come dire
altrimenti, continuavamo ad essere delle militanti
dell'organizzazione per i "grandi temi politici" e di pari
passo "lavoravamo" come e con le donne; un doppio lavoro,
insomma. Tutto questo è andato avanti fino agli inizi dell'estate
'76, fino alle elezioni politiche in cui Lotta Continua si era
presentata autonomamente, poi da quel momento la mia militanza
politica all'interno di Lotta Continua è andata scemando giorno dopo
giorno. Non abbiamo smesso, invece, di riunirci come donne di Lotta
Continua, ma più per il rapporto di amicizia che ci legava che per
un progetto politico specifico»1.
«Se
solo le vostre riunioni vi avessero fatto capire che da angeli del
focolare vi eravate trasformate in angeli del ciclostile…»,
borbotta Moira. Poi esplode. «È vero lottavate, ma quasi
esclusivamente per l'aborto e per altri obiettivi legati alla
politica tradizionale. Scendevate in piazza con parole d'ordine
dettate dai vostri uomini, cercando di trascinare in questa lotta le
donne del femminismo autonomo. Noi, invece facevamo autocoscienza in
piccoli gruppi, alla ricerca di in un nuovo modo di far politica, non
gerarchico, distante anni luce da quello della lotta politica della
tradizione marxista. Il famoso partir da sé». E rivolta a me con il
suo fare da maestrina mi fa: «È stata la prima pratica innovativa
del femminismo autonomo, la rivoluzione pacifica delle donne legata
alla presa di coscienza, allo scambio, all’ascolto dell’altra,
alla rimessa in discussione della società patriarcale, del rapporto
con l’uomo, nel pubblico e nel privato».
«Guarda
che non erano facili i rapporti neanche tra voi femministe», tuona
zia Carla dopo essersene stata ad ascoltare in silenzio. «Mica
scherzavate al Pompeo Magno. Vuoi negare che si scatenò una
primordiale contesa tra etero e non? Tutte concordi nella scelta del
separatismo politico dal mondo degli uomini, ma divise sulla pratica
delle relazioni. Quella che si respirava lì da voi mica era certo
una bella aria».
«Beh,
voi siete riuscite a far sciogliere Lotta Continua…».
«Non
è proprio così, Moira. E lo sai bene!»!
«Avete
letto il giornale oggi?», chiedo a tutte e due. «No? Beh, fatelo.
Forse una volta per tutte non ne parliamo più di questa storia». Su
Repubblica è uscita questa recensione di Nello Ajello su un
dibattito a proposito dello scioglimento di Lotta Continua apparso su
Micromega. «Rimini, primi di novembre del 1976. Nel corso del suo
secondo congresso, Lotta continua – uno dei movimenti più vivaci
della sinistra estrema – si dissolve in maniera che a molti pare
inspiegabile». L’Unità, organo di quel Pci che con la compagine
politica di Adriano Sofri e Guido Viale non è mai stato tenero,
rileva che i congressisti «hanno sostituito le emozioni alle
mozioni» e scorge nell’evento una «crisi della militanza di
estrema sinistra». Dal suo canto Lotta continua – il quotidiano
che, nato del ‘72, fa capo al movimento – rinunzia a fornire «un
verbale esatto delle emozioni che ci hanno travolti». A Rimini,
aggiunge con spontanea iperbole, si sono vissuti «cinque giorni tra
la vita e la morte», fra «l’angoscia e la gioia». Quei giorni di
novembre non erano che l’epilogo di una situazione esplosa
all’interno del movimento quasi un anno prima, durante un corteo in
sostegno della legalizzazione dell’aborto, tenutosi il 6 dicembre
1975. Lotta continua vi partecipò con un proprio striscione. A un
certo punto, le femministe che militavano nel movimento cercarono di
separarsi dagli uomini, rivendicando una loro autonomia. Il servizio
d’ordine di Lotta continua le ostacolò. Sugli incidenti che ne
nacquero si sarebbe dibattuto a lungo sia in Lotta continua che
nell’intera galassia della sinistra radicale. Così scrisse, a
botta calda, il Quotidiano dei lavoratori: «Compagno Sofri, sabato
scorso l’avete fatta grossa. E il movimento delle donne non lo
dimenticherà».
Le
zie s’interrompono e scoppiano a ridere. È citata proprio la frase
che avevano detto prima. Moira e Carla riprendono a leggere. «Se ne
avrà la prova a Rimini, appunto: lì sarà proprio l’ala
femminista del movimento, se non a causare la sua fine, certo a
forzarne i tempi. Nel numero che è oggi in edicola la rivista
MicroMega dedica all’evento un diffuso dibattito cui partecipano
quattro ex esponenti di Lotta continua: Guido Viale, lo storico
Giovanni De Luna, Franca Fossati, femminista storica, lo scrittore
Erri De Luca, a suo tempo fra i dirigenti del servizio d’ordine.
Tutti d’accordo nel collocare in quel novembre di trent’anni fa
l’epilogo del movimento (mentre Lotta Continua-giornale resisterà
fino al 1981). La discussione verte, invece, sulla diagnosi politica
del “caso”, sulle sue ripercussioni a breve termine e perfino
sulla modalità degli scontri che lo precedettero». De Luna si
sofferma, ad esempio, sul rilevante «significato politico e
simbolico» dell’incidente del ‘75. Ricorda che, in un’assemblea
svoltasi a Torino subito dopo, la stessa collocazione dei
partecipanti rifletteva una drastica separazione: «In alto c’era
la macchia scura degli operai, in basso quella delle donne; poi
c’erano gli studenti, che non sapevano dove stare. Nel centro c’era
una dirigenza schiacciata dall’incomunicabilità che si respirava
in quell’aula». Ne nasce l’esigenza di fare luce sulle
responsabilità di questa incomprensione. E qui lo storico accenna a
un precedente. Risalendo all’atteggiamento tenuto dal movimento
durante la campagna per il referendum sul divorzio (1974), trova che
quello fu ritenuto un diversivo per «distrarre gli operai dalla
dimensione salariale della lotta»: qualcosa di estraneo ai loro
interessi. Si fece poi marcia indietro, e alla rigidità subentrò
«un’apertura senza mediazioni»; ma il male era ormai senza
rimedio. Operai e femministe «non si parlavano più». «Sul
problema delle donne – incalza Franca Fossati – Lotta Continua
ebbe una tardiva capacità d’ascolto». E, quando la nascita del
femminismo diventò una realtà globalmente accreditata, ecco che
esso assurse, per le donne del movimento, «un orizzonte
totalizzante», determinando «un cambiamento nella nostra vita e in
quella di molti uomini». Una questione dall’evidente «risvolto
esistenziale». Si sfasciarono, ad esempio, «molte coppie». Al
riparo di un falso operaismo – qui la testimonianza della Fossati
si fa accorata – lo stile di vita nel movimento prendeva «tutti i
difetti peggiori della famiglia operaia patriarcale»». Uno spirito
separatista nasceva dai fatti. E ne derivava anche una certa dose di
settarismo: «Noi, come tutte le neofite di un movimento, vedevamo le
donne che non stavano con noi come traditrici. E fu molto ingiusto e
crudele». Autocritica? Non è soltanto la Fossati a farne. In
prossimità del suo epilogo, sostiene ad esempio Viale – d’accordo,
in questo, con De Luna – «il movimento stava perdendo la capacità
di capire quello che succedeva nel paese». E, in particolare,
«l’esplosione del movimento femminista è stata una contraddizione
lacerante, che ha trovato l’organizzazione impreparata». Per
capire gli effetti che avrà in Lotta continua la contraddizione
uomo-donna, occorre comunque tener presente che fra militanti si
svolgeva allora una «vita in comune», animata da una contiguità di
sentimenti. Se non il più polemico, certo il più controversiale fra
i partecipanti al dibattito è Erri De Luca. Egli discorda da
Giovanni De Luna che vede alla base della decadenza di Lotta continua
«l’esaurimento della forza operaia nelle fabbriche». Pone
piuttosto alla base della crisi il mancato (benché promesso)
sorpasso del Pci sulla Dc alla elezioni del ‘76 e le insignificanti
percentuali raccolte dalla sinistra extraparlamentare. Lo scrittore
quasi non riesce ancora a crederci. «Un’organizzazione
rivoluzionaria» ed extraparlamentare «che si lascia scompaginare
dal risultato elettorale, è abbastanza ridicolo». A quel punto, le
dimissioni del «gruppo dirigente di Lotta continua» erano nei
fatti. Anzi, rivela De Luca, erano state decise già un anno prima.
Lotta continua e la violenza. Se quel movimento sia stato o no un
incunabolo del terrorismo. Se il suo servizio d’ordine abbia
rappresentato o meno un «corpo separato» prendendo la mano al
movimento; se i suoi effettivi fossero armati o inermi. Temi
scottanti che il dibattito di MicroMega ripropone con efficacia. I
reduci si accalorano nel rievocarli. A volte si dividono con nettezza
fra autocritici e «auto-innocentisti». Sempre tenendo presente –
sono parole di Viale – che fra i militanti d’un tempo «si sono
mantenuti poi dei rapporti di forte solidarietà»2.
Nessuna
delle due ha qualcosa da commentare. Strano. «Perché non vai a
comprare MicroMega?», mi chiede Moira. Vuole rimanere sola con zia
Carla e parlarle di Daniele. Lo so. «Va bene», dico andando a
cercare la borsa. «Ci vediamo più tardi». Già immagino che testa
le farà. Zia Moira ha sempre detestato Daniele. Anche quando mamma
era ancora viva. Forse era gelosa di quel rapporto o molto più
semplicemente detestava i maschi. Lei era una femminista convinta e
non aveva mai trovato, così sostiene lei, un uomo degno della sua
testa, del suo cuore e del suo corpo.
Si
erano conosciute al collettivo femminista di via Pompeo Magno, zia
Moira e mamma. Maria ci andava per aiutare le ragazze madri e zia era
una delle fondatrici. Così simili e così diverse, divennero subito
amiche. Avevano capito che erano complementari l’una con l’altra.
Moira le fece da testimone, insieme a zia Carla che è la sorella di
mia madre, quando si sposò con papà. Il 10 gennaio del 1969 mise
la firma sul quel contratto di matrimonio e prese alla lettera
l’impegno che si era assunto con quell’autografo. Non smise mai
di vegliare su mia madre per impedire che Luca le facesse del male.
Voleva proteggerla da tutto e da tutti, quando invece era lei,
proprio lei, che aveva bisogno di protezione, fragile e sensibile
com’era. Una fragilità che nascondeva a meraviglia dietro quella
scorza dura di femminista, incazzata con il mondo.
Stavano
sempre insieme zia e mamma. Alle assemblee, alle manifestazioni, nel
tempo libero. Maria se la portava dietro pure quando doveva fare i
suoi servizi. Le piaceva sentire il suo punto di vista. Moira era una
psicologa. Campava facendo sborsare fior fior di quattrini a quelle
signore ingioiellate e impellicciate che pensavano di poter risolvere
i propri problemi sentimentali con una seduta d’analisi. La
stragrande maggioranza di quei soldi venivano poi usati per le
battaglie in difesa delle donne. Bisogna andare nei quartieri di
periferia e parlare con le madri, le figlie, le nonne. Convincerle
che quello che stavano subendo era ingiusto, che si poteva cambiare
la loro condizione. Che se un marito le picchiava potevano lasciarlo,
denunciarlo. Che potevano scegliere cosa fare della loro vita. Poi
c’erano le manifestazioni, i cortei, i sit-in. Quando ero piccola
mi piaceva sentir raccontare da zia Moira dell’8 marzo. E lei ogni
volta che glielo chiedevo tirava fuori la storia della manifestazione
del 1972. Quella di Campo de’ Fiori che secondo lei fu il vero
primo otto marzo femminista. «Cantavamo “Noi siamo stufe di
abortire/ ogni volta col rischio di morire/ il nostro corpo ci
appartiene/ per tutto questo lottiamo insieme. Ci dicon sempre di
sopportare/ ma da oggi noi vogliamo lottare/ per la nostra
liberazione/ facciamo donne la rivoluzione!”. C’era pure Jane
Fonda alla manifestazione. Ma quando se ne andò portandosi dietro
tutti i fotografi e le telecamere scoppiò il casino», zia modulava
la voce come si trattasse di una favola. «Eravamo una settantina ma
fu una bambina, Susanna, a scatenare l’ira dei poliziotti. Fino a
quel momento erano stati tolleranti, ci sorridevano mentre ci
dicevano di restare sul marciapiede. Poi Susanna disse qualcosa e
iniziarono le manganellate. Alma Sabatini, la madre del collettivo
Pompeo Magno, finì all’ospedale con la testa rotta. Io venni
caricata di peso da due guardie e portata sulla camionetta».
Quell’
8 marzo scesero in piazza per la prima volta anche le lesbiche. Fu
Mariasilvia Spolato a fare il primo coming out presentandosi alla
manifestazione con il cartello: “Liberazione omosessuale”. E le
sue ragioni divennero immediatamente anche quelle di mia madre. Il
primo maggio era di nuovo a Campo de’ Fiori, insieme a me piccola e
zia Moira, a volantinare. Urlava: “Vogliamo le comuni”, “Abbasso
il capitale”, “Il capitale è un grande fallo”, “Abbasso la
famiglia”, “Abbasso il fascismo maschile”. Un po’ di curiosi
si avvicinarono per sapere chi era a manifestare. E lei rispondeva:
“Froci e lesbiche!”. Ma non capirono. Tutto finì a secchiate
d’acqua.
Note:
1
Intervista di Maurizia Morini a G.G., 53 anni, insegnante.
2
La Repubblica, 29 settembre 2006
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