Daniele
se né andato con l’aliscafo delle 6,30 diretto a Formia. Prima di
imbarcarsi mi ha chiesto se intendevo battezzare mia figlia con il
nome di Maria. Ci sto pensando, gli ho risposto abbracciandolo. Non
appena salito a bordo me ne sono andata, senza aspettare che
partisse. Non vedevo l’ora di tornare a casa per scoprire cosa
conteneva quel prezioso pacchetto che mi ha lasciato.
In
quella scatola impacchettata da Daniele c'erano i diari di mia madre.
Mi sono messa a piangere mentre li sfogliavo, li accarezzavo e li
stringevo sul mio cuore. Con la voce emozionata ho chiamato zia
Carla. «Scusa per l’orario zia», ho esordito, «non ti
preoccupare sto bene. È solo che tu e zia Moira dovete venire al più
presto a Ventotene. È venuto a trovarmi Daniele Impellizzeri. E
indovina un po’? Mi ha portato i diari di mamma. Voglio che li
leggiate insieme a me». Zia era abbastanza stordita dal sonno, ma
non c’è stato bisogno di aggiungere altro. «Arriviamo domani o
dopodomani. Chiamo Moira e partiamo».
Dentro
la scatola c’era un biglietto di Daniele. Mi chiedeva di leggere
per prima cosa la pagina datata 28 aprile 1976. Non è stato
difficile trovarla. Ci aveva messo un bel segnalibro di legno a forma
di calla, il fiore che più le piaceva. Mi sono accoccata sulla sua
poltrona, proprio davanti alla finestra dalla quale si può godere
una splendida vista sul carcere di Santo Stefano illuminato dal sole
di una limpida mattina di tramontana.
Voglio
ricordare ogni istante di questa notte. La pressione del tuo pollice
sulle labbra e la voglia della mia lingua di sentire il suo sapore.
Di assaggiarti. Inizio dal polpastrello: sa di tabacco. E pure di
burro, quello del cornetto che ci siamo appena divisi. Poi il dito.
Il palmo della mano, il polso, il braccio tatuato, la scapola che ti
provoca fastidio, il collo, il mento reso ispido da quella barba
dietro la quale ti nascondi. Fino alle labbra. Le sfioro solamente e
mi allontano. Ho paura che la realtà prenda il sopravvento e il mio
sogno svanisca. Ma questa volta non è così. Sei tu ora a volermi
assaggiare. La bocca è solo l’inizio. La sciarpa, la giacca, la
maglia spariscono da dosso mentre continui a dirmi quanto sono bella.
Affondi la testa tra i miei seni, baci i miei capezzoli, accarezzi la
mia pancia, lecchi il mio piede. Mentre le mie mani si perdono tra i
tuoi capelli, si deliziano a ripassare i lineamenti del tuo volto
quasi a volerli imparare a memoria, toccano la tua schiena, i tuoi
glutei. Tu ed io, poi, siamo stati un unico corpo, un’unica voce.
Siamo diventati noi. Scaraventati dal desiderio, dalla passione, dal
piacere, in un’altra dimensione, ci siamo sentiti finalmente
liberi. Non esisteva più niente e nessuno.
28 aprile 1976
Neanche
io? Neppure papà e le zie? Né la rivoluzione che sognava, né le
compagne e i compagni? E le sue inchieste? Eppure io non me ne sono
mai accorta. Se l’avessi saputo a quel tempo, l’avrei fatto
sentire in colpa rimproverandola del poco tempo che passava con me.
Le avrei detto che non era giusto, che non avevo scelto io di venire
al mondo e che come madre avrei preferito la sorella. Avrei pianto e
urlato per sentirmi dire che io ero l’unica cosa importante della
sua vita, Anche se sapevo che mi amava più della tua stessa vita.
Perchè in fondo lo sentivo, ma volevo punirla e provare quel sadico
piacere nel vederla sconfitta, lei che affrontava senza paura le
situazioni peggiori, lei che ha dimostrato sempre di essere forte e
decisa, lei che sapevi sempre cosa fare. Oggi invece no, non ce l’ho
con lei. Oggi riesco a comprenderla e persino a giustificarla.
Mi
alzo e vado a prendere la sua foto che sta incorniciata in camera
mia. È del 1976 e mi piace pensare che sia stata scattata proprio
quel 28 aprile. È una foto che adoro, perché nella mia testa, mia
madre sarà sempre così. Io avevo sei anni e lei era bellissima. Le
bastava un po’ di mascara sulle ciglia per sentirsi a posto. I
capelli arruffati odoravano di lei, come la sua pelle impregnata di
quel profumo che andava a comprare a corso Rinascimento. Era diversa
dalle mamme delle mie amiche e io ci soffriso: avrei voluto vederla
su quei tacchi a spillo sui quali ancheggiavano le signore alle
inaugurazioni in galleria da papà. Avrei voluto vederle le unghie
laccate di rosso e pure le labbra disegnate da quella matita che mi
aveva regalato per mascherarmi a carnevale. E invece no. Le uniche
cose femminili che indossava le nascondevi, le calze autoreggenti
sotto i pantaloni, i body di pizzo sotto le maglie nere. Sempre e
solo nere.
Era
affascinante anche se non se ne rendeva conto. Me lo ha detto pure
Daniele. Anche lui non ha mai dimenticato quella sera. Non era
riuscito mai a trovare le parole per descrivere ciò che successe il
28 aprile. Per questo ha usato le sue parole. Le parole che Maria ha
scritto sul diario. «Dopo quel 28 aprile non esisteva più niente e
nessuno», c’è scritto nel biglietto che ha lasciato nella
scatola.
Non
riesco a descrivere quello che provo con questi quaderni tra le mani.
Continuo ad annusarli e mi sembra che abbiano ancora il suo profumo.
Li sfoglio e oltre ai suoi scritti trovo articoli di giornale
appiccicati e ripiegati su se stessi, e alcune foto che incollate
sulle pagine del quadernetto rosso. Su una c’è papà, poco più
che ventenne, con me piccolissima. Ha i capelli lunghi, lisci, e i
baffi ben curati. La mano lunga e abbronzata sostiene la mia
testolina, mentre il resto del corpo è appoggiato a cavalcioni
sull’avambraccio. Credo sia stata scattata in galleria. Ci sono
quadri accatastati ovunque e sullo sfondo si intravede un artista che
sta dipingendo qualcosa sul muro. Settembre 1970, c’è scritto
sotto. Io ho solo un mese.
Su
un’altra pagina c’è la sua foto con Daniele. Lui, che è molto
più magro di come è oggi, sta dietro e la tiene abbracciata per la
vita. Mia madre davanti con le braccia larghe e la testa appoggiata
al suo petto. Stanno in mezzo a tante altre persone, sembra un
concerto, o una manifestazione. Se non fosse per i colori un po’
sbiaditi potrebbe sembrare una foto scattata oggi. Lui con una
montagna di capelli castano scuro mossi, la barba folta, gli occhiali
a goccia, una dolcevita rossa che si intravede da sotto l’eskimo.
Lei con un vestitino nero, gli stivali senza calze, un trench avana,
un paio di occhialoni neri tirati sopra i capelli arruffati. Mi fermo
a guardare le sue mani. È vero sono piene di anelli grandi,
bellissimi… Chissà che fine hanno fatto. Devo chiedere a zia
Moira.
Eccola,
c’è pure lei nel diario. Bella, appariscente, con due grosse tette
che si è sempre ben guardata dal nascondere. La gonna a balze, i
capelli lunghi neri, vistosi orecchini d’argento indiano, il
cappotto di montone, la tolfa a tracolla. Il perfetto stereotipo di
una fricchettona. Nella foto state facendo “naso naso”. E
basterebbe questo attimo immortalato dal flash di qualche compagno
per dimostrare quanto bene si sono volute quelle due.
Poi
c’è zia Carla con me e nonna Anna. Abbiamo tutte e tre una
ghirlanda di margherite in testa. Loro sono sedute in un campo di
papaveri rossi mentre io cerco di arrampicarmi sulle spalle di zia.
Nonna ride, mentre zia fa una smorfia di dolore. Che bella giornata.
Bella come tutte quelle che passavamo insieme. In questa foto avrò
avuto cinque, forse sei anni, era il compleanno di nonna e come
sempre ci ritrovavamo nella casa in campagna per festeggiare. In quei
giorni ognuno era obbligato a dimenticare i problemi, la politica,
gli affanni per riscoprire l’importanza di una famiglia che
nonostante tutto c’era sempre a sostenere, a coprire, a
giustificare. Io non ho mai conosciuto nonno Luigi. Lui è morto
quando mia madre era molto piccola e zia Carla appena nata. Ma so
tutto di lui. Instancabilmente zia ha tenuto vivo il ricordo e la
memoria di quel partigiano, suo padre, che partecipò alla battaglia
di porta San Paolo del settembre 1943, ma venne ammazzato dai
tedeschi prima della Liberazione, durante un’azione di sabotaggio
notturno a un cantiere ferroviario sulla Cassia.
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