Attraverso il diario di un'anarchica morta in circostanze misteriose,
ritrovato casualmente dalla figlia dopo trent'anni, viene raccontata la
storia d'italia a partire dalla morte di Pino Pinelli fino al sequestro
di Aldo Moro. La protagonista è una giovane donna che vive a
Ventotene e che attraverso il diario e i racconti degli amici della
madre riesce a scoprire non solo chi era lo sconosciuto brigatista di
via Fani a bordo della Honda, del quale parlano tanti testimoni mai
realmente identificato, ma anche a dipanare molti dei misteri legati al
sequestro e all'omicidio del presidente della Dc.
Per leggere il romanzo basta cliccare sui capitoli qui a fianco...
Avvertenze
La
storia qui narrata si base su documenti reali: rapporti di polizia,
articoli di riviste e di quotidiani nazionali, atti di processi.
Sarebbe difficile affermare che questo è un romanzo.
La
stragrande maggior parte di ciò che viene qui narrato è frutto
della fantasia dell'autore, delle sue personali e per nulla
attendibili versioni dei fatti accaduti in Italia tra il 1969 e il
1978. L'informazione basata sui documenti rappresenta soltanto
l'infrastruttura su cui è costruita la finzione.
Sarebbe
difficile affermare che si tratta di un testo fatto di testimonianze,
ovviamente questo è un romanzo.
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Il sangue politico: è in arrivo il nuovo libro
Prefazione di Erri De Luca
Ed. Editori Riuniti
Il 25 Aprile in libreria
Per approfondire la storia e il periodo visita il blog "Il sangue politico" con documenti, foto e libri scaricabili gratuitamente in PDF
Prologo
Io
so chi c’era quella mattina del 16 marzo a via Fani. I so chi sono
i motociclisti che hanno partecipato al rapimento di Aldo Moro. Io so
perché si sono perse le loro tracce. Io so chi c'è dietro
l’assassinio del presidente della Dc. Io so chi ha ucciso mia
madre. Io so perché è morta. Io so chi ha rovinato la mia vita e quella di tante altre
persone. E so anche che dovrei raccontare tutto.
Mio
padre mi sta aspettando a Formia. L’ho chiamato appena ho letto
quei fogli che mi ha lasciato sul comodino. Verrà a prendermi al
porto, all’attracco del traghetto che arriva da Ventotene. Io,
però, ancora non ho deciso cosa fare.
La
ragione mi dice che devo andare dai carabinieri e fare una denuncia:
ho una dichiarazione firmata dalla stronza. Ma il cuore no: se lo
facessi, inevitabilmente verrebbe coinvolto anche lui. Eppure non è
giusto continuare a mantenere un segreto così grande, che non
coinvolge solo la mia famiglia. Non si tratta più solo di un affare
privato. La mia non può essere solo vendetta nei confronti dei
mandanti dell'assassinio di mia madre, eppure mi fa uno strano
effetto pensare che lo dovrei fare per lo "Stato", per la
“giustizia”. Quello Stato e quella giustizia che ancora non hanno
dato un nome all’assassino di Pino Pinelli. Né a quello di
Giorgiana Masi, né di Piero Bruno, né a quello di tanti altri.
Quello Stato e quella giustizia ai quali mia madre, anarchica, non
credeva più.
Il
signor Aniello mi è venuto a prendere a casa con l'auto per evitare
che facessi tutta quella strada a piedi. Si meraviglia che non abbia
neanche una valigia con me. La borsa è più che sufficiente per
portarmi appresso quei segreti, anche se pesano come un macigno.
Mi
accompagna al porto e sale come me sul traghetto per assicurarsi che
trovi un posto comodo, viste le mie condizioni di donna incinta. Di
solito, anche d'inverno, preferisco mettermi sul ponte per salutare
chi resta a terra e poi vedere sparire piano piano la mia isola,
quasi che il mare la inghiottisse per conservarmela immutata al
ritorno.
Abbraccio forte il mio amico Aniello per cercare in lui, un
vecchio uomo di mare ricco di umanità e esperienza che mi ha visto
crescere, quel coraggio che non ho. Sprofondo nella mia poltrona
cercando di riordinare le idee e trovare una soluzione. Eppure le
uniche cose che mi vengono in mente sono l’odio per Daniele che mi
ha coinvolta in questa storia, la rabbia verso mio padre che mi ha
tenuto sempre all’oscuro di tutto, e il disprezzo per lo Stato che
non è stato capace di trovarsi da solo i colpevoli.
Mio
padre mi sta aspettando a Formia. E io, con la sensazione di vivere
solo un sogno, riapro i diari di mia madre alla ricerca di una
soluzione. Se lei fosse stata al mio posto avrebbe saputo certamente
cosa fare. Io no.
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Capitolo 1
Caspita
è molto meglio che in tv. Appena è sceso dall’aliscafo gli ho
fatto segno con la mano per essere notata e lui mi ha raggiunto con
un enorme mazzo di fiori. Daniele mi ha abbracciato forte spiegandomi
che ogni fiore corrispondeva ad un anno che non ci siamo visti. Sa di
buono, di pulito. I capelli spettinati, la barba incolta e pure le
rughe attorno agli occhi non riescono a nascondere i lineamenti
delicati del viso, il naso perfetto e le labbra carnose. Mi ha preso
le mani e mi ha fatto notare che non ho anelli. Neanche la fede
(vaglielo a spiegare che mi sono gonfiate anche le dita). Mi ha
lasciato la sinistra e mi ha alzato la destra come se volesse farmi
ballare, invece mi ha solo girato attorno scrutandomi. Dalla testa ai
piedi. Non ha detto nulla, ma io so quello che ha pensato. E lo ho
anticipato per togliermi dall’imbarazzo: «Non le somiglio per
niente». «Molto più somigliante a tua madre di quanto tu credi,
Sole, fidati», mi ha contraddetto sussurrando, come si trattasse di
un segreto: «Affascinante allo stesso modo». Poi ha tirato fuori
dalla borsa che portava a tracolla un pacchetto. Me lo ha dato
chiedendomi di aprirlo non appena se ne fosse andato. Ho promesso,
nonostante la curiosità mi stesse divorando.
Mi
aveva telefonato da Formia chiedendomi se poteva raggiungermi a
Ventotene.
«Principessa
sono Daniele», mi sono sentita dire da una voce di uomo.
Ho
avuto un tremito. «Daniele chi?».
«Daniele
Impellizzeri e cerco Sole, la bambina di Maria». Ma quella bambina è
diventata una donna e lui è un attore famoso.
«Cosa
vuoi? Non ci vediamo da ventidue, ventitre anni e mi cerchi qui? »,
ho ribattuto con un misto di diffidenza, curiosità e disagio.
«Hai
ragione, Sole. Ma ho veramente bisogno di vederti. Sono a Formia e se
tu vuoi mi imbarco sull’aliscafo delle 17,30 per venire da te».
E
quello che ho provato dopo avergli detto sì solo tu, mamma, lo puoi
capire. Solo tu puoi capire lo stupore e l’ansia di rivederlo qui
nel volontario esilio dal resto del mondo. Un allontanamento
indispensabile per godere fino in fondo, fin da subito, questa nuova
esperienza della mia vita. Finalmente, mamma, sto per diventare
mamma, e voglio assaporare tutti i cambiamenti umorali, fisici,
psichici che questo comporta fin dai primi mesi della gravidanza.
Voglio stare sola con me stessa, con la mia bambina, ma soprattutto
con te. Ci sono giornate in cui avverto la tua presenza in modo molto
forte. Come adesso che sto portando a casa nostra il tuo amico
Daniele.
Di
lui ricordo poco. Un bell’uomo, un ciuffo al vento, qualche
conversazione movimentata in casa. Per me una carezza o un sorriso.
Ricordi sfumati che ho provato a mettere a fuoco in quelle due ore
che dalla telefonata mi restavano all'arrivo dell’aliscafo. Ma
niente. Quello che mi viene in mente mentre sistemo un po' casa è
solo l'immagine dell'attore, quello che ho visto in questi anni in tv
o al cinema. E per incontrare l'uomo famoso devo mettere a posto
anche me stessa. Mi guardo nello specchio chiedendomi cosa penserà
“l’amico di Maria” vedendomi. La risposta è una sola: una
trentenne con un pancione troppo grande e i vestiti troppo stretti.
Ma come fanno a dire che le donne incinte sono belle, penso mentre
cerco nell’armadio qualcosa di più decente da mettermi. Non
riesco a trovare niente di meglio che un paio di pantaloni militari.
Ovviamente non si allacciano, ma è sempre meglio di quelle vecchie
tute di mio marito che attualmente costituiscono il mio guardaroba.
Purtroppo anche le magliette si sono ristrette. O meglio sono le mie
tette che sono cresciute. Del resto sono al settimo mese di
gravidanza, ma mi sento bene. Anzi benissimo e in men che non si dica
ho lavato i piatti accumulati nel lavandino, ho passato lo straccio,
ho dato una pulita al bagno e poi sono scesa al porto ad accoglierlo
sulla nostra isola.
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Capitolo 2
Daniele
si è fermato a Ventotene solo due giorni. E devo confessare che
nonostante i timori iniziali, la sua visita mi ha fatto molto
piacere. È stato molto gentile e ha voluto che gli mostrassi i
posti di Ventotene che mia madre amava di più. Per prima cosa l’ho
accompagnato a punta Eolo. Abbiamo attraversato il sentiero nascosto
vicino al cimitero, rigoglioso, in questo periodo dell’anno, di
aloe, fichi d’india, ginestra, e canne. Ci siamo arrampicati sulle
rocce, abbiamo sbirciato nell’area archeologica della villa di
Giulia e gli ho raccontato di quante storie ci inventavamo sugli
antichi abitanti di quei ruderi che all’epoca erano completamente
abbandonati. Poi ci siamo seduti sul nostro scoglio, quello in “pizzo
in pizzo” dove contavamo le barche e aspettavamo il traghetto.
Siamo rimasti in silenzio a guardare l’orizzonte. Ognuno assorto
nei propri pensieri. Stava per alzarsi e tornare indietro quando
l’ho preso per una mano e lo fatto rimettere seduto. «Perché hai
voluto vedermi?», gli ho chiesto. Avevo rimandato la domanda per
tutta la passeggiata aspettando il momento più adatto. Era arrivato.
«Speravo
che me l’avessi chiesto, Sole. Voglio che tu sappia la verità. E
il regalo che ti ho portato ti aiuterà a farlo. Intanto vorrei
raccontarti una storia partendo dalla fine. Dall’ultima sera che
Maria ed io ci siamo visti. Mentre l’accompagnavo a prendere l’auto
mi ha confidato di aver scoperto chi sia chi era quell’Igor che
stava cercando da alcune settimane e di aver capito chi era a gestire
il sequestro Moro. Era nervosa perché non sapeva come comportarsi.
Le dissi di stare attenta. Mi baciò per l’ultima volta». Quello
che accadde due giorni dopo è storia. La storia della mia vita.
Era
il primo maggio del 1978 e mamma mi stava raggiungendo a casa di
nonna a Campagnano. Con la sua Renault 4 rossa si è schiantata
contro un camion che con il suo carico di 300 quintali di pomodori
arrancava a 45 chilometri l’ora sulla Cassia bis, subito dopo le
Rughe. Non c'è stato nulla da fare. Il caso fu frettolosamente
archiviato come incidente. Ma Daniele mi ha detto di non averci mai
creduto.
«Innanzitutto»,
ha ripreso a raccontare accendendosi il sigaro che teneva spento tra
le labbra, «è curioso che il camionista avesse deciso di fare quel
viaggio proprio il Primo maggio. Perché invece di godersi il
meritato riposo della festa dei lavoratori si è messo alla guida»?
«Ma
la cosa più strana», ha insistito, «è che niente dei suoi effetti
personali furono riconsegnati a tuo padre. Neppure i suoi vestiti o
le cianfrusaglie che aveva in tasca e nella borsa. Così come non c’è
più traccia al ministero degli Interni del rapporto che la polizia
stradale promise di inviare insieme ai documenti e il materiale
trovato nell’auto». Daniele mi ha detto di essere convinto che ci
fosse qualche cosa legata all’indagine sulla quale tu stavi
lavorando. Io non riuscivo a capire di cosa stesse parlando e non so
se mi interessa, visto che ripensare alla tua morte mi fa star male.
«Secondo
me quell’Igor di cui parla tua madre è Igor Markevitch», ha
continuato Daniele dopo aver aspirando profondamente il cubano nel
silenzio più totale. «Il 14 ottobre 1978 una fonte del Senato
segnalò che un certo Igor aveva avuto un ruolo di primo piano
nell’organizzazione delle Brigate rosse e che, in particolare,
avrebbe condotto tutti gli interrogatori di Moro, della cui
esecuzione sarebbero stati autori materiali certi “Anna” e
“Franco”. La persona fu identificata con Igor Markevitch, grande
direttore d’orchestra di fama internazionale, oriundo russo ed ora
cittadino italiano, coniugato con Topazia Caetani. Ma dopo alcuni
accertamenti con l’intervento dei servizi segreti, non emersero
elementi concreti che indicassero nel maestro l’appartenenza alle
Brigate rosse. Sul finire degli anni Novanta, trapelarono strane
notizie sulla possibile presenza alle riunioni del comitato esecutivo
delle Brigate rosse di un personaggio di primissimo piano. Fu il
dissociato Valerio Morucci che parlò di un “anfitrione”, di un
personaggio misterioso che a suo dire avrebbe messo a disposizione
delle Br, per le riunioni, una villa vicino a Firenze. Da successivi
elementi emerse l’ipotesi che l’uomo potesse essere proprio
Markevicth, che tra le altre cose aveva un passato nella resistenza
nelle formazioni dei Gap».
Daniele
si è alzato e si è avvicinato al precipizio. Ha proseguito il suo
monologo come se si trovasse su un palcoscenico, di fronte al
pubblico. La cosa mi ha dato un senso di nausea e credo di essermi
distratta. «Man mano che prendeva quota la leggenda del Grande
Vecchio, il senatore Pellegrino, presidente della Commissione Stragi,
riaprì le indagini su alcune segnalazioni che le inchieste
giudiziarie avevano tralasciato, e a poco a poco prese corpo una
storia straordinaria. Pellegrino affidò le indagini al maggiore
Massimo Girando dei ROS, uno dei migliori uomini dell’arma dei
carabinieri, direttamente alle dipendenze del generale Mori, allora
comandante generale dei carabinieri. L’indagine, che si concluse
nel 2001, portò alla scoperta di un intreccio di poteri forti,
intelligenze segrete, massonerie internazionali che sarebbero ad un
certo punto subentrate nella gestione del sequestro Moro. Mi
ascolti?».
Sì,
stavo ascoltando. Ma facevo fatica a star dietro a quello che mi
stava dicendo. Non ho osato però fare domande. Ho avuto paura di
sapere. «Igor Markevicth», ha seguitato Daniele accendendosi il
sigaro ormai spendo, «si scoprì che già durante la prigionia del
presidente Dc era noto al Sismi. Ma le indagini condotte su di lui
dal servizio segreto furono interrotte da un intervento “superiore”.
Era il primo maggio 1978, mancava ancora una settimana al compimento
della tragedia, quando due agenti del nostro controspionaggio si
recarono a Palazzo Caetani, nella stessa strada dove otto giorni dopo
sarebbe stata ritrovata la Renault rossa con il corpo di Moro. I due
agenti, su richiesta del loro diretto superiore, cercavano
informazioni su un certo Igor Caetani, ma non c’erano discendenti
maschi nella nobile famiglia romana. L’ultimo era Michelangelo che
aveva avuto soltanto una figlia femmina, Topazia, sposata con il
musicista Igor Markevicth, direttore dell’Accademia di Santa
Cecilia, dal quale però era ormai divorziata. Il domicilio di
Palazzo Caetani era da tempo di Hubert Howard, vedovo di Lelia, la
cugina di Topazia morta da oltre un anno. Le indagini si bloccarono
per colpa di un non meglio identificato “ordine superiore”, forse
impartito dal capo del Sismi e ai due agenti, non restò che
constatare che la missione era fallita proprio lì, in via Caetani,
quando si stava per aprire la “porta segreta”».
In
quel momento moriva mia madre.
In
silenzio mi sono alzata e sono andata via con gli occhi pieni di
lacrime. Se avessi potuto lo avrei fatto scomparire, ma Daniele mi è
venuto dietro cambiando completamente discorso.
«Non
ha mai voluto che la raggiungessi qui», ha iniziato a urlare mentre
mi raggiungeva. Io avevo già ripreso a a ritroso il sentiero in
mezzo alle ginestre e le aloe. «E dopo la sua morte non ha avuto più
senso venire a Ventotene. Ora che sento il profumo che tua madre ha
cercato di descrivermi un’infinità di volte, ora che vedo il
colore del mare e lo spettacolo affascinante di Santo Stefano ho
finalmente capito perché diceva che era un’isola magica. Un’isola
che secondo lei ha il potere di ammaliarti e di non lasciarti più
andare via. Ma queste sono cose che tu sai meglio di me».
È
vero. Mia madre avrebbe voluto vivere qui a Ventotene. Avrebbe voluto
mollare tutto e trasferirsi qui con me. Ma poi c’era sempre
qualcosa che la faceva desistere, cogliendo comunque ogni occasione
per tornarci, soprattutto d’inverno quando c’erano al massimo
duecento persone.
Ho
invitato Daniele a togliersi le scarpe e a camminare scalzo, così
come faceva lei. Sostenevi che in questo modo si poteva incamerare
l’energia del vulcano del quale Ventotene rappresenta solo la parte
visibile, e io ci credevo. Ci credo. Ce le siamo tolte entrambi ed
abbiamo camminato a piedi nudi fino a piazza Castello per prenderci
l’aperitivo da Verde.
«Mia
madre era innamorata di te?», gli ho chiesto tutto d’un fiato
cercando di cogliere sul suo viso un’espressione che mi desse la
risposta prima ancora della sua voce. Daniele si è acceso ancora una
volta il sigaro prima di parlare. Ha aspirato e gli occhi si sono
illuminati come la brace del toscano che teneva in bocca. «Credo di
sì. A modo suo, ma credo di sì».
«E
tu?», lo ho interrogato ancora.
Anche
questa volta la risposta non è stata immediata. Come se volesse
trovare le parole giuste: «Ho cercato di negarlo anche a me stesso,
ho fatto di tutto per non dimostrarglielo. Per dimenticarla. Ma non
ci sono riuscito, anche se mi faceva stare male».
«Mia
madre ti faceva stare male? Zia dice che eri tu a farla stare male»,
lo ho interrotto incuriosita, ma anche orgogliosa di avergli estorto
questa confessione che ribalta completamente la tesi di Moira per cui
tu eri vittima del fascino di quell’uomo.
«Non
la capivo. Diceva di amarmi, ma non avrebbe mai lasciato tuo padre
senza di te. Perchè a modo suo amava anche lui, che la tradiva e la
trattava come una pazza. Non voleva privarlo della gioia di stare con
sua figlia. Era una donna libera, ma con un grande senso di
responsabilità. Non credo che Maria abbia mai avuto altre storie.
Con me era diverso, perché noi non eravamo amanti, noi stavamo anche
giorni senza vederci o sentirci, noi non ci facevamo promesse, il
sentimento che ci legava era qualcosa di trascendentale che non aveva
niente a che vedere con il sesso e il possesso. Purtroppo trent’anni
fa non sono stato capace di comprenderne l’importanza, e oggi darei
qualsiasi cosa pur di abbracciarla, di baciarla, di rassicurarla che
quello che lei provava per me era esattamente quello che io provavo
per lei. Se solo avessi avuto il coraggio di dirle che l’amavo,
forse il destino sarebbe stato diverso».
Daniele
mi ha guardato negli occhi in attesa di commento, di una replica a
quanto mi aveva appena rivelato. Ma io non sapevo cosa dire, perché
non riuscivo a capire che effetto avesse avuto su di me questa
dichiarazione d’amore per mia madre aggiunta ai dubbi che mi aveva
insinuato a Punta Eolo. Per fortuna si è avvicinata al nostro tavolo
una signora per chiedergli l’autografo. Rimessi i panni dell’attore
famoso, abbiamo iniziato a chiacchierare di cinema, dei suoi
colleghi, dei registi e dei film in circolazione.
Ho
anche cucinato per lui. Pasta alla norma. Anche questo, ha detto
Daniele, era il segno che io sono uguale a mia madre. Pure lei la
preparava spesso, ma per il semplice fatto che era una delle poche
cose che sapevi cucinare. Però, ho evitato di dirglielo.
Abbiamo
parlato molto anche di lui. Si è sposato, ha divorziato, e da
qualche tempo sta con un’attrice più giovane di venti anni. Non ha
figli. Mi ha detto queste cose come se non si rendesse conto di
essere una persona famosa, che la sua vita è pubblica, raccontata
sui rotocalchi. In effetti non sembra sentirsi un vip, non si
comporta come la gente immagina si comporti uno che ha successo, ha i
soldi, fa la bella vita. Mi è sembrato un uomo come tanti, con i
suoi pensieri, con il suo passato che è ancora troppo presente. In
un certo senso mi fa persino tenerezza. Mi ha confidato di essere
stato spesso tentato di rintracciarmi, di vedermi, di parlarmi, ma la
timidezza ha avuto sempre il sopravvento. Poi un giorno ha incontrato
Francesco De Blase, un amico giornalista di mia madre, che gli ha
detto che ero incinta, che stavo a Ventotene. Si è fatto dare il
numero del cellulare, ma sì è deciso a chiamarmi solo dopo diverse
settimane.
«Comunque
non erano tutte rose e fiori con Maria», ha detto pure. «Era
complicata, testarda, permalosa. Non c’erano vie di mezzo con lei.
Non si poteva dare niente per scontato. Quando si metteva in testa
una cosa, nessuno riusciva a farle cambiare idea. Doveva rendersene
conto da sola e poi forse ammetteva di aver sbagliato. Ricordo di una
sera che dovevamo andare ad una festa, io però stavo male e gli
dissi che non avrei potuto accompagnarla. Mi disse di non
preoccuparmi e ci andò con la sua amica, Moira. In realtà alla
festa ci andai. Ma non ebbi modo di avvertirla perché a quel tempo
non c’erano i cellulari. Quando mi vide lì non disse nulla, non
venne neanche a salutare. Mi mandò tramite Moira un bigliettino con
su scritto sei uno stronzo. Poi scomparve. Non si faceva vedere in
giro, non rispondeva al telefono. Dopo un mesetto, un bel giorno, mi
aspettò fuori dal teatro con un regalo, un libro. Non volle sentire
spiegazioni, né volle più parlare di quella serata. Era fatta così.
Però era anche molto dolce, sapeva ascoltare, sapeva dare consigli.
E poi era generosa, forse troppo. Anche su questo litigavamo spesso.
Mi comprava cose per la mia casa, libri, dischi, quadri. Io mi
sentivo in imbarazzo e glielo dicevo. Ma era come parlare al vento.
Anzi si offendeva rispondendo che lei faceva quello che voleva».
Già,
mia madre hai sempre fatto quello che voleva. Non le importava nulla
dei giudizi della gente, né di quello che pensavano i suoi amici. Ad
esempio, mi ha raccontato Daniele, di quando ha chiesto a Ciccio,
cioè a Francesco, di collaborare con lei. «Era un ragazzo che
voleva fare il giornalista e tua madre gli insegnò il mestiere. Non
gliene importava nulla che i suoi compagni la mettessero in guardia
perché frequentava la facoltà di Giurisprudenza. Perché bastava
questo, a quel tempo, per farsi etichettare come “fascista”. A
Maria non interessava con chi era stato visto ripassare una lezione o
scambiarsi gli appunti. Gli interessava come si comportava. E lui, a
quanto diceva lei, si comportava bene. Ma questo per i compagni, i
suoi amici, era semplicemente assurdo, inconcepibile. Ciccio ora è
un apprezzato giornalista e questo lo deve esclusivamente a tua
madre. In generale Maria è stata molto liberale nei rapporti
interpersonali. Ha sempre avuto una tendenza a mettersi nei panni
dell’altro, ad assumere il punto di vista del suo interlocutore. E
questo in politica era considerato un difetto, ma a lei non
importava. Detestava l’arroganza di chi si sentiva dalla parte del
giusto».
Ho
voluto sapere da Daniele come si sono conosciuti, forse per non
pensare alle Br, al sequestro moro, a Igor, ai servizi segreti, e a
tutte quelle informazioni che mi aveva vomitato addosso a Punta Eolo.
Volevo che mi raccontasse cosa facevano insieme. Di che cosa
chiacchieravano. Ha iniziato a parlare solo quando l’ho lasciato in
veranda per andare a mettere in tavola la cena, quasi avesse bisogno
di non distrarsi per ricordare.
«Venne
a La Fede, la cantina di porta Porta Portese di Giancarlo Nanni e
Manuela Kustermann. Avevamo messo in scena il Risveglio
di primavera di
Wedekind. Era il 1972. Ci siamo conosciuti lì. Mi disse che lo
spettacolo le era piaciuto molto, ma anche che assolutamente
ignorante sul teatro d’avanguardia. Mi chiese di farle da maestro.
La prima lezione gliela diedi immediatamente. Il termine
“avanguardia” è un termine improprio, dissi imitando uno di quei
professori isterici che insegnavano all’accademia. Le avanguardie
riguardano e si fermano a quelle storiche del primo Novecento. Da ora
in poi voglio sentirti parlare di “sperimentazione” o di
“ricerca”. Lei scoppiò a ridere e mi assunse come suo insegnante
personale».
Daniele
mi ha detto che a quel tempo era un giovane attore. Si era iscritto
all’Accademia d’Arte Drammatica, ma ben presto smise di
frequentare perché riteneva quel sistema d’insegnamento superato.
Non teneva conto dei sommovimenti politici e sociali, né
dell’energia combattiva che il teatro intendeva liberare per
partecipare attivamente al trionfo delle ideologie, alle battaglie
del femminismo, alle rivendicazioni del mondo gay, all’amore
libero, alla libertà delle droghe. Iniziò a frequentare le cantine
teatrali dove le compagnie altro non erano che gruppi formati
perlopiù da amici, amanti, sorelle, fratelli e molto raramente da
scritturati. Un po’ dei clan che si raccoglievano intorno a
un’identità di vedute e a un desiderio di esprimersi tramite il
teatro. Tutti facevano tutto. E non solo per via di una libera e
consapevole scelta. Le scarse possibilità economiche imponevano che
chi contribuiva a mettere in scena il testo potesse avere voce in
capitolo. Così, anche se lo spettacolo era siglato dal nome del
regista, veniva considerato un’elaborazione collettiva.
Daniele,
da parte sua, ricorda per filo e per segno il loro primo appuntamento
al Beat 72. «Si chiamava così», mi ha spiegato subito dopo essersi
complimentato per l’ennesima volta della riuscita del mio piatto,
«perché “beat” era una parola magica che coniugava cultura e
stili di vita, e 72 perché si trovava al numero 72 di via Gioacchino
Belli». Aveva un ingresso molto piccolo, ha detto, con una stretta
scala che andava giù ripidissima. Si scendeva e c’era una specie
di piccolo antro che serviva da biglietteria, un corridoio usato come
foyer e poi tre stanze in successione, ad arcate. Un’altra sala,
attigua all’ultimo di questi vani, serviva per deposito e camerini.
L’unica entrata, e quindi anche l’unica uscita, era la porticina
in alto. «Era novembre 1972, la sera del debutto di uno spettacolo
che immediatamente diventò celebre e fu tra quelli italiani più
visti anche all’estero: Le
120 Giornate di Sodoma di
Giuliano Vasilicò. Il pubblico della prima era molto irriverente,
dava pacche sul sedere agli attori scatenandosi in commenti salaci,
tanto erano tutti amici. Vasilicò scompose il testo di De Sade
sintetizzandolo in ventuno scene immerse in un buio totale solcato da
fasci luminosi. Maria», ricorda Daniele come se fosse successo la
sera prima, «rimase colpita dall’interazione tra i frammenti
testuali, gli interventi musicali martellanti ed il ritmo impresso,
tutto scandito sul vorticoso movimento dato ai carrelli che
trasportavano gli attori. Una sinfonia di fantasmi lussuriosi che si
materializzavano dal nero e giravano vertiginosamente alla luce, per
poi ritornare ad essere ingoiati dalle tenebre. Una rappresentazione
che indubbiamente colpiva per la centralità trionfale accordata al
corpo dell’attore. Un corpo nudo, ovviamente, perché era uno dei
più importanti elementi alla base del teatro sperimentale».
Con
Daniele mia madre si vedevano quasi esclusivamente a teatro, almeno
così ha detto. Lei sempre tra il pubblico, qualche volta con me in
braccio, addormentata. Lui spesso sul palcoscenico. Nel 1973 debuttò
nel Pirandello,
chi? di
Memè Perlini e si ricorda che mia madre gli ha regalato un enorme
mazzo di margherite. «Hai letto i Sei
personaggi?»,
mi ha chiesto. «Immagina di addormentarti e di sognarli.
Questo
era lo spettacolo. Dei Sei
personaggi rimanevano
brandelli. C’era una grossa invenzione visiva. C’era il
personaggio-figlia sempre impegnato in esercizi fisici molto
difficili e complicati, noi attori truccati vistosamente, suggestioni
futuriste e surrealiste, con un sguardo privilegiato alle arti
plastiche. Ricercare i Sei
personaggi era
veramente arduo… quello che bisognava fare era lasciarsi andare al
flusso onirico che colpiva lo sguardo dello spettatore, e questo lo
spettacolo riusciva perfettamente a permetterlo».
Daniele
ha detto di averle fatto conoscere pure Mario Ricci. Io ho ammesso di
non averlo mai sentito nominare e lui mi ha spiegato che in quegli
anni era molto famoso perché strutturava il suo lavoro come un
gioco: prendeva un testo, lo smontava, dopodiché poteva utilizzarne
anche solo delle immagini. Mi ha fatto l'esempio di Moby
Dick,
che sembrava ambientato nell’antro delle streghe di un parco
giostre, completamente realizzato con scenografie di cartone dipinto.
"Nel finale", ha raccontato, "l’enorme bocca di Moby
Dick ingoiava il capitano Achab, intento per buona parte del tempo
della rappresentazione a giocare al solitario con dei grossi mazzi di
carte, o a scrutare l’illusorio orizzonte con un cannocchiale. A
Maria piaceva tantissimo perché analizzava, scomponeva e si
irrobustiva con l’immissione di una visione personalissima del
mondo. E anche se a volte le proposte vacillavano per mancanza di
adeguati supporti teorici, c’era una grande forza scenica e
visionaria che l’affascinava. Ricci divenne il suo autore teatrale
preferito».
Io
non ho voluto contraddirlo più di tanto, ma da quel che so io, mia
madre eri "fissata" per il Living Theatre. Considerava
Paradise,
now!,
che avevi visto con papà ad Avignone nel 1968, un percorso politico
spirituale da seguire.
Un percorso da compiere per tappe, sull'esempio dei rituali
religiosi, dove la liberazione di tutti gli uomini, rappresenta
l’ultimo atto, l’ultimo gradino di una scala simbolica verso la
rivoluzione.
Daniele
ha detto che lei non gliene ha mai parlato, spiegandomi che il posto
più politicizzato che frequentavate insieme era Spazio Zero a
Testaccio. Che era un costituito da un tendone da circo, senza
riscaldamento e dove si moriva, letteralmente, di freddo. «Tua madre
in questo spazio si sentiva a casa», ha sottolineato Daniele. Lui
meno. E a un certo momento decise che era arrivato il momento di
partire. Se ne andò per un po’ in Toscana, poi lasciò l’Italia.
E l’addio a te è impresso nella sua memoria come se il tempo si
fosse fermato.
«Ancora
ho negli occhi le parole di quella sera», mi ha detto. «Di quando
mi passò a prendere con la sua Renault4 rossa, sventolando quei due
biglietti, mentre suonava il clacson con la sigaretta in bocca. Con
i capelli ribelli e tutti quegli anelli alle mani che quasi le
impedivano di prenderci per mano. Ancora me la ricordo. E nelle
orecchie risento la colonna sonora di quella giornata. Che è
iniziata con Touch
me
dei Doors ed è finita con il Testamento
di Tito
mentre riflettevo sull’ultima discussione che avevamo avuto. Tua
madre mi passò a prendere a Pontedera, dove mi ero rifugiato
nell’ultimo mese. Era marzo del 1973. La sera prima avevamo
litigato al telefono. Continuavo a sostenere che eravamo diversi,
perché io sono comunista. E lei anarchica. O meglio, io forse sono
più anarchico di lei, sempre che ci siano dei gradi di anarchia, ma
darle ragione quando mi diceva che lo siamo tutti mi dava fastidio.
Per fare pace mi propose di andare al concerto di De Andrè».
A
questo punto Daniele si è fermato. Forse non sapeva se era il caso
di continuare. O forse voleva ricostruire i pensieri di quel giorno
in maniera logica.
«Forse
ero cinico, forse troppo. Ma l’amore rende cinici, è troppo grande
per non esserlo, si rischia di morire dentro prima che fuori.
L’anarchia è anche quella del non divenire, non divenire per
essere sempre lo stesso, come fosse quella rivoluzione permanente che
Bakunin predicava perché non cambiasse nulla nell’ordine, ma che
dico ordine, del non governo di nessuno, perché l’animale che è
in ogni uomo non arrivasse a voler comandare sugli altri. Fermarsi un
gradino prima e festeggiare su quello scalino con una rivoluzione
permanente. Aveva ragione, ma non glielo ho mai detto, perché
davanti a lei dovevo sostenere che Lenin ha applicato il migliore dei
mondi possibili e che gli anarchici sono solo degli schiavi dei
pensieri e fanno poca azione perché è faticosa. Un po’ come la
differenza fra i politici e i sindacalisti, i primi parlano, gli
altri si sporcano le mani con gli operai. Eppure così io volevo
vivere. In perenne rivoluzione con me stesso per non cambiare più.
Mi piaceva essere così, ascoltare e non parlare, sperare ma non
aspettare, cantare e non aprire bocca, amare e non dichiararlo.
Pavido e sicuro al tempo stesso. Era la giusta strada per morire come
Anna Karenina, sotto il treno della fatalità senza aver mai comprato
un biglietto per partire».
«Quella
mattina il mio umore era nero e mi sembrava che nulla potesse farmi
uscire da quella spirale di pessimismo su ogni futuro pensabile. Ma
era arrivata lei, con i due biglietti per l’Eden, o meglio per la
migliore approssimazione del paradiso terrestre di quei due sfigati
di Adamo ed Eva, traditi da un banale morso a una mela bacata.
Stavamo per andare a sentire, vedere, godere e vivere Faber».
«Volevamo
distruggere, ricostruire e curare il nostro nuovo mondo, ma non ci
eravamo accorti che il mondo che volevamo costruire era quello che
iniziava nella zona occipitale del nostro cervello e finiva sulle
papille della lingua, proprio un attimo prima di dire qualsiasi cosa
o tradurre un qualsivoglia idea. Era amore, semplicemente amore. Ora
lo posso dire, senza rischio di sbagliare. Eravamo una sola idea e un
solo inutile orgoglio di non voler ammettere che eravamo una sola
cosa. Che stupidi. Ma forse è stato proprio quel volersi sentire
diversi, anche dalla propria anima gemella, che ci ha reso unici,
veramente unici ai propri occhi, orgogliosi di un’artefatta e
presunta diversità».
«Siamo
arrivati che tutti erano già lì, il biglietto non serviva perché
nessuno l’ha controllato, tanti erano quelli che avendo vantato il
diritto di poter ascoltare senza pagare, fugavano la necessità
sovrastrutturale di brandire un pezzo di carta per vantare un diritto
che era giustamente di tutti. Di quel concerto ricordo perfettamente
la sua pelle, i suoi occhi e la sua commozione, intima, forte e
sconcertante. Portava con sé un corpo che non aveva ancora trovato
quel piccolo barlume finale che le avrebbe consentito di esplodere in
un urlo. “Di
respirare la stessa aria dei secondini non mi va, perciò ho deciso
di rinunciare alla mia ora di libertà”,
cantava lui dal palco e lei stringeva il pugno, quasi a lacerarsi le
dita contro gli anelli. “se
c’è qualcosa da spartire fra un prigioniero e il suo piantone, che
non sia l’aria di quel cortile, voglio soltanto che sia prigione”,
continuava lui e Maria quasi piangeva di rabbia. Forse perché sua
sorella, tua zia, era stata beccata dalla polizia qualche giorno
prima perché aveva un fucile dentro l’auto, e rischiava di finire
in galera. La amavo più di quanto le parole avrebbero potuto
descrivere e il mio cinismo era sommerso dalla bellezza indomabile di
quel momento. Ero preda dell’amore e della voglia fisica di
stringere quel corpo e farlo una cosa sola con il mio. “Quando
in anticipo sul tuo stupore, verranno a chiederti del nostro amore. A
quella gente consumata nel farsi dar retta, un amore così lungo, tu
non darglielo in fretta”.
De André continuava a cantare, non si rendeva conto cosa significava
per me quella frase. Ero dilaniato dal dolore indotto da quel quadro
che aveva creato Faber. Una tela di Fontana con un taglio netto e
verticale, inesorabile e ineluttabile come la morte del mio cuore in
quel momento. Fui costretto a pensare ad altro da un’improvvisa
manifestazione degli operai della Piaggio. Che scandirono, con un
certo disappunto generale, slogan contro i padroni e per la libertà
dagli oppressori. Fabrizio non era in disaccordo e si era fermato, ma
si leggeva nei suoi movimenti e nelle boccate di sigaretta un po’
più nervose, mentre era seduto sul suo piccolo sgabello con accanto
un bicchiere di wisky, che l’arte e la poesia non dovevano essere
profanate dalla lotta di classe. Forse perché, come me, pensava che
la lotta dei deboli e degli oppressi già trasudava da ogni verso
delle sue canzoni. Bastava ascoltare. Ma le parole di un altro non
sono le proprie e il desiderio di espressione aveva tutto il diritto
di essere ascoltato.
«“Anche
se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura
di guardare vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato
le vostre 1100. Anche se voi vi credete assolti siete per sempre
coinvolti”.
A questi versi lei si mise a piangere. Sentiva il dolore e la
rassegnazione generazionale di un esercito di incompresi. Io no,
perché credevo, e credo ancora, che un esercito non può essere
incompreso, ma solo pavido. Per me lottare era la prima cosa, per
Maria il pensiero di perdere diventava un alibi per piangersi addosso
e trovare una giustificazione alla compassione per gli altri e
all’autocommiserazione di se stessi».
Daniele
si è interrotto e mi ha guardato come se ci fossi stata Maria al mio
posto. Con severità mista a quella tenerezza che forse non le ha mai
dimostrato ha ripreso: «Questo ricordo. Questo voglio ricordare e
non il fatto che abbiamo litigato in macchina anche dopo il concerto.
Voleva fare l’amore, ma solamente per soddisfare l’istinto di
dare un senso a quel sentirsi soli, con il bisogno di essere parte di
un altro mondo, anche fisicamente. L’allontanai da me senza
spiegarle il perché e lei lo prese come un rifiuto. Mi accusò di
non volerle bene, mi disse che non le piacevo. Io non sono riuscito a
spiaccicare una parola mentre avrei dovuto spiegarle che volevo
proteggermi. E proteggerla. Nei giorni seguenti non ci siamo né
sentiti né cercati. E me ne sono andato via, lontano».
Daniele
mi ha raccontato che mise un po’ di roba nella sacca e se andò a
Oslo. Voleva fare la sua esperienza all’Odin
Teatret,
il
gruppo fondato nel 1964 dal regista italiano Eugenio
Barba
e dagli attori norvegesi Else Marie Laukvik e Torgeir Wethal. Voleva
mettersi alla prova. Mi ha spiegato che il metodo di Barba prevedeva
un intenso allenamento
fisico, che doveva preparare alla recitazione,
ma anche selezionare le persone più motivate e dotate di
autodisciplina. L’allenamento o training era inteso non solo come
mezzo per acquisire particolari abilità tecniche, ma
soprattutto come processo continuo di definizione della propria
presenza scenica. Girovagò parecchi mesi prima di tornare a Roma.
Riitrovò
mia madre alla Magliana. C’era un contro-festival e lei doveva
scrivere un pezzo. Daniele conserva ancora nel portafoglio una
fotocopia del ritaglio di giornale datato 22 giugno 1974. «La
Magliana non è un quartiere, è una maledizione, scrivevamo più di
un anno fa su Paese Sera. Ieri sera il contro-festival di piazza Vico
Pisano ha ridato a quella «maledizione» una dimensione umana. II
concerto, organizzato dal comitato di quartiere e da Stampa
Alternativa ha assunto quasi subito la caratteristica della festa
popolare. II confronto con Villa Borghese insomma non c’è stato.
C’erano gruppi e cantanti che facevano la stessa musica, ma il
pubblico, lo scenario, lo spirito era diverso. Piazza Vico Pisano è
uno stretto corridoio fra due lunghe file di palazzi dormitorio
soffocante, disumano. In questo scenario, che è la fotografia di una
Roma sbagliata, c’era un piccolo palco su cui, davanti a un
pubblico composto da giovani, donne, vecchi, lavoratori, e tanti
bambini si sono susseguiti i «numeri» dello spettacolo. Il compito
di aprire è toccato a Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Il
primo venerdì aveva disertato il prato verde di villa Borghese, ieri
ha spiegato che suonare alla Magliana, in un quartiere popolare, fra
la gente che ogni giorno è costretta a combattere i mille problemi
di un vero e proprio ghetto in cui imperversano la malaria e
l’epatite ha ridato alla sua musica una dimensione non asettica,
non neutrale. Il secondo che nell’intervento che ha preceduto il
suo numero ha rivendicato quella libertà di artista che lo ha spinto
a esibirsi anche a Villa Borghese, è stato applaudito freneticamente
quando ha suonato uno dei suoi successi popolari, «Roma capoccia».
Poi è toccato all’altro «pezzo forte», Alan Sorrenti, anche lui
in polemica con la manifestazione «ufficiale». Il «clou» è stato
però rappresentato dal «Trium Delirium», venti ragazzi francesi
arrivati a bordo di tre pulmini con donne e bambini. «In Francia -
hanno spiegato - viviamo tutti in una comune, qualcuno gira suonando,
altri coltivano la terra». Da Roma andranno verso est per fare il
giro del mondo. Alla manifestazione aveva aderito anche Edoardo
Bennato. Il «contro-festival», che ha suscitato un dibattito molto
serrato sulla musica fra gli stessi artisti che si sono esibiti, si è
concluso a tarda notte. Fino alla fine piccoli e grandi hanno vissuto
una serata nuova, diversa, che forse ha rappresentato una occasione
unica per riportare la musica a contatto con i problemi reali di chi
l’ascoltava»1.
Da
quella sera hanno ricominciato a frequentarsi. Lui, mi ha detto, che
l’aiutò a riprendersi dallo shock della strage di Brescia di
piazza della Loggia del 28 maggio. Era in corso una manifestazione
contro il terrorismo organizzata dai sindacati e da un comitato
antifascista. Ci andarono molti suoi compagni e quello che le
raccontarono fu un incubo. Quel giorno morirono otto persone. Altre
94 rimasero ferite.
Iniziò
una storia. Una storia strana, che solo mia madre poteva voler
vivere. Una storia di rinunce e di speranze, di tenerezza e di
rabbia, di attesa e di attimi rubati. «La nostra non era una
relazione fisica», ha ribadito Daniele mentre mi aiutava a
sparecchiare. «Eravamo impegnatissimi, avevamo sempre tantissime
cose da fare. Io a teatro, lei al giornale, con te, con Moira, le
manifestazioni. E quando c’incontravamo parlavamo, discutevamo,
litigavamo per poi starcene anche due o tre ore sdraiati sul divano
in silenzio semplicemente a giocare l’uno con le mani dell’altro.
E poi diceva di essere diventata allergica a qualsiasi tipo di
rapporto sentimentale che potesse catalogare le persone in base allo
stato sociale: coniugata, single, fidanzata. Io invece ero alla
ricerca della donna della mia vita. Volevo mettere su famiglia,
volevo un figlio. E così stavamo insieme senza legami».
Note:
1
Carlo Rivolta, Paese Sera, 23 giugno 1974
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Capitolo 3
Daniele
se né andato con l’aliscafo delle 6,30 diretto a Formia. Prima di
imbarcarsi mi ha chiesto se intendevo battezzare mia figlia con il
nome di Maria. Ci sto pensando, gli ho risposto abbracciandolo. Non
appena salito a bordo me ne sono andata, senza aspettare che
partisse. Non vedevo l’ora di tornare a casa per scoprire cosa
conteneva quel prezioso pacchetto che mi ha lasciato.
In
quella scatola impacchettata da Daniele c'erano i diari di mia madre.
Mi sono messa a piangere mentre li sfogliavo, li accarezzavo e li
stringevo sul mio cuore. Con la voce emozionata ho chiamato zia
Carla. «Scusa per l’orario zia», ho esordito, «non ti
preoccupare sto bene. È solo che tu e zia Moira dovete venire al più
presto a Ventotene. È venuto a trovarmi Daniele Impellizzeri. E
indovina un po’? Mi ha portato i diari di mamma. Voglio che li
leggiate insieme a me». Zia era abbastanza stordita dal sonno, ma
non c’è stato bisogno di aggiungere altro. «Arriviamo domani o
dopodomani. Chiamo Moira e partiamo».
Dentro
la scatola c’era un biglietto di Daniele. Mi chiedeva di leggere
per prima cosa la pagina datata 28 aprile 1976. Non è stato
difficile trovarla. Ci aveva messo un bel segnalibro di legno a forma
di calla, il fiore che più le piaceva. Mi sono accoccata sulla sua
poltrona, proprio davanti alla finestra dalla quale si può godere
una splendida vista sul carcere di Santo Stefano illuminato dal sole
di una limpida mattina di tramontana.
Voglio
ricordare ogni istante di questa notte. La pressione del tuo pollice
sulle labbra e la voglia della mia lingua di sentire il suo sapore.
Di assaggiarti. Inizio dal polpastrello: sa di tabacco. E pure di
burro, quello del cornetto che ci siamo appena divisi. Poi il dito.
Il palmo della mano, il polso, il braccio tatuato, la scapola che ti
provoca fastidio, il collo, il mento reso ispido da quella barba
dietro la quale ti nascondi. Fino alle labbra. Le sfioro solamente e
mi allontano. Ho paura che la realtà prenda il sopravvento e il mio
sogno svanisca. Ma questa volta non è così. Sei tu ora a volermi
assaggiare. La bocca è solo l’inizio. La sciarpa, la giacca, la
maglia spariscono da dosso mentre continui a dirmi quanto sono bella.
Affondi la testa tra i miei seni, baci i miei capezzoli, accarezzi la
mia pancia, lecchi il mio piede. Mentre le mie mani si perdono tra i
tuoi capelli, si deliziano a ripassare i lineamenti del tuo volto
quasi a volerli imparare a memoria, toccano la tua schiena, i tuoi
glutei. Tu ed io, poi, siamo stati un unico corpo, un’unica voce.
Siamo diventati noi. Scaraventati dal desiderio, dalla passione, dal
piacere, in un’altra dimensione, ci siamo sentiti finalmente
liberi. Non esisteva più niente e nessuno.
28 aprile 1976
Neanche
io? Neppure papà e le zie? Né la rivoluzione che sognava, né le
compagne e i compagni? E le sue inchieste? Eppure io non me ne sono
mai accorta. Se l’avessi saputo a quel tempo, l’avrei fatto
sentire in colpa rimproverandola del poco tempo che passava con me.
Le avrei detto che non era giusto, che non avevo scelto io di venire
al mondo e che come madre avrei preferito la sorella. Avrei pianto e
urlato per sentirmi dire che io ero l’unica cosa importante della
sua vita, Anche se sapevo che mi amava più della tua stessa vita.
Perchè in fondo lo sentivo, ma volevo punirla e provare quel sadico
piacere nel vederla sconfitta, lei che affrontava senza paura le
situazioni peggiori, lei che ha dimostrato sempre di essere forte e
decisa, lei che sapevi sempre cosa fare. Oggi invece no, non ce l’ho
con lei. Oggi riesco a comprenderla e persino a giustificarla.
Mi
alzo e vado a prendere la sua foto che sta incorniciata in camera
mia. È del 1976 e mi piace pensare che sia stata scattata proprio
quel 28 aprile. È una foto che adoro, perché nella mia testa, mia
madre sarà sempre così. Io avevo sei anni e lei era bellissima. Le
bastava un po’ di mascara sulle ciglia per sentirsi a posto. I
capelli arruffati odoravano di lei, come la sua pelle impregnata di
quel profumo che andava a comprare a corso Rinascimento. Era diversa
dalle mamme delle mie amiche e io ci soffriso: avrei voluto vederla
su quei tacchi a spillo sui quali ancheggiavano le signore alle
inaugurazioni in galleria da papà. Avrei voluto vederle le unghie
laccate di rosso e pure le labbra disegnate da quella matita che mi
aveva regalato per mascherarmi a carnevale. E invece no. Le uniche
cose femminili che indossava le nascondevi, le calze autoreggenti
sotto i pantaloni, i body di pizzo sotto le maglie nere. Sempre e
solo nere.
Era
affascinante anche se non se ne rendeva conto. Me lo ha detto pure
Daniele. Anche lui non ha mai dimenticato quella sera. Non era
riuscito mai a trovare le parole per descrivere ciò che successe il
28 aprile. Per questo ha usato le sue parole. Le parole che Maria ha
scritto sul diario. «Dopo quel 28 aprile non esisteva più niente e
nessuno», c’è scritto nel biglietto che ha lasciato nella
scatola.
Non
riesco a descrivere quello che provo con questi quaderni tra le mani.
Continuo ad annusarli e mi sembra che abbiano ancora il suo profumo.
Li sfoglio e oltre ai suoi scritti trovo articoli di giornale
appiccicati e ripiegati su se stessi, e alcune foto che incollate
sulle pagine del quadernetto rosso. Su una c’è papà, poco più
che ventenne, con me piccolissima. Ha i capelli lunghi, lisci, e i
baffi ben curati. La mano lunga e abbronzata sostiene la mia
testolina, mentre il resto del corpo è appoggiato a cavalcioni
sull’avambraccio. Credo sia stata scattata in galleria. Ci sono
quadri accatastati ovunque e sullo sfondo si intravede un artista che
sta dipingendo qualcosa sul muro. Settembre 1970, c’è scritto
sotto. Io ho solo un mese.
Su
un’altra pagina c’è la sua foto con Daniele. Lui, che è molto
più magro di come è oggi, sta dietro e la tiene abbracciata per la
vita. Mia madre davanti con le braccia larghe e la testa appoggiata
al suo petto. Stanno in mezzo a tante altre persone, sembra un
concerto, o una manifestazione. Se non fosse per i colori un po’
sbiaditi potrebbe sembrare una foto scattata oggi. Lui con una
montagna di capelli castano scuro mossi, la barba folta, gli occhiali
a goccia, una dolcevita rossa che si intravede da sotto l’eskimo.
Lei con un vestitino nero, gli stivali senza calze, un trench avana,
un paio di occhialoni neri tirati sopra i capelli arruffati. Mi fermo
a guardare le sue mani. È vero sono piene di anelli grandi,
bellissimi… Chissà che fine hanno fatto. Devo chiedere a zia
Moira.
Eccola,
c’è pure lei nel diario. Bella, appariscente, con due grosse tette
che si è sempre ben guardata dal nascondere. La gonna a balze, i
capelli lunghi neri, vistosi orecchini d’argento indiano, il
cappotto di montone, la tolfa a tracolla. Il perfetto stereotipo di
una fricchettona. Nella foto state facendo “naso naso”. E
basterebbe questo attimo immortalato dal flash di qualche compagno
per dimostrare quanto bene si sono volute quelle due.
Poi
c’è zia Carla con me e nonna Anna. Abbiamo tutte e tre una
ghirlanda di margherite in testa. Loro sono sedute in un campo di
papaveri rossi mentre io cerco di arrampicarmi sulle spalle di zia.
Nonna ride, mentre zia fa una smorfia di dolore. Che bella giornata.
Bella come tutte quelle che passavamo insieme. In questa foto avrò
avuto cinque, forse sei anni, era il compleanno di nonna e come
sempre ci ritrovavamo nella casa in campagna per festeggiare. In quei
giorni ognuno era obbligato a dimenticare i problemi, la politica,
gli affanni per riscoprire l’importanza di una famiglia che
nonostante tutto c’era sempre a sostenere, a coprire, a
giustificare. Io non ho mai conosciuto nonno Luigi. Lui è morto
quando mia madre era molto piccola e zia Carla appena nata. Ma so
tutto di lui. Instancabilmente zia ha tenuto vivo il ricordo e la
memoria di quel partigiano, suo padre, che partecipò alla battaglia
di porta San Paolo del settembre 1943, ma venne ammazzato dai
tedeschi prima della Liberazione, durante un’azione di sabotaggio
notturno a un cantiere ferroviario sulla Cassia.
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Capitolo 4
Bakunin
si è preso la sua rivincita su Marx, ci siamo detti vedendo tutti
quegli anarchici a Milano in via Preneste. Fa freddo e c’è molto
traffico. È l’ultimo sabato prima di Natale. Ci sono tante
bandiere nere con la A. Qualcuna rossa della Quarta Internazionale. A
tenerle in mano soprattutto giovani, ma c’erano anche parecchi
vecchi anarchici, con il cravattone nero, dietro alla moglie di
Pinelli. La bara sta su un furgone. Ci sono qua e là dei fotografi
appostati. La polizia ci ha bloccato a via Paravia, non voleva che il
corteo funebre proseguisse fino al Musocco. Così al campo 76 del
cimitero ci siamo andati dopo, al crepuscolo, giusto in tempo per
vedere i becchini che calavano nella fossa, la numero 434, la cassa
con Pinelli. Che stranamente aveva sopra una croce. Qualcuno prima
aveva provveduto a coprirla con una bandiera, ma ora che la stavano
mettendo sotto terra si è vista. Eravamo un centinaio e ci
guardavano a distanza una ventina di guardie in borghese. Abbiamo
alzato il pugno a salutarlo. Intanto arrivava altra gente. Un ragazzo
con la barba corta ha detto: “Pinelli è stato assassinato. Addio
Pino. Non dimenticheremo né te, né quelli che ti hanno ucciso”.
Poi una voce roca ha attaccato Addio Lugano Bella e abbiamo iniziato
a cantare. Ma a bassa voce, con il ritmo lento di una marcia funebre.
E io sono scoppiata a piangere. Ho preso un sasso al cimitero,
vicino alla fossa e l’ho stretto in mano fino a sentire dolore. Ma
non è nulla in confronto a quello che sento nello stomaco.
L’hanno
buttato dalla finestra. Pinelli è morto ammazzato. L’hanno ucciso
dopo tre giorni di interrogatori. Le guardie l’hanno convinto ad
andare in via Fatebenefratelli e poi lo hanno fatto fuori. Pino
faceva il ferroviere ed è un anarchico, non ha nessuno che lo
protegge e vogliono farlo passare per il responsabile della strage di
piazza Fontana. Non è così. Sono in treno. Sto tornando da Luca.
Oggi ho partecipato ai funerali di Pinelli ed ho provato tanta
rabbia. Una rabbia che non sapevo di avere. Non so se la verità
ufficiale coinciderà mai con la realtà, certo è che qualcuno dovrà
pagare. E pagherà caro.
Tutto
è iniziato il 12 dicembre 1969, alle ore 16.37 a Milano: un
ordigno, composto da sette chili di tritolo, è esploso nel salone
centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana.
Il bilancio è stato di 16 morti e 88 feriti. A Roma qualche minuto
dopo una bomba esplode in un corridoio sotterraneo della sede
centrale della Banca Nazionale del Lavoro, tra via Veneto e via San
Basilio: 13 impiegati sono rimasti feriti, uno in maniera grave. Il
boato è stato fortissimo. Poi una nuova esplosione a distanza di
mezz’ora. Un ordigno sulla terrazza dell’Altare della Patria, sul
lato che si affaccia sui Fori Imperiali: nessuna vittima. Due minuti
dopo un altro botto, un’altra bomba è esploso sempre sulla
terrazza dell’Altare della Patria, dalla parte della scalinata
dell’Ara Coeli: nessuna vittima. A Milano, quello stesso
pomeriggio un impiegato della Banca Commerciale Italiana di piazza
della Scala ha trovato una borsa nera e l'ha consegnata alla
direzione. La borsa conteneva un’altra bomba che non è esplosa per
un difetto di funzionamento del timer del congegno d’innesco. Ma
gli artificieri hanno deciso di farla brillare distruggendo così
eventuali indizi fondamentali. Devono trovare a tutti i costi un
capro espiatorio: gli anarchici. Così vanno a bussare a casa di
Pinelli. Non ci ha messo molto Calabresi a convincerlo a seguirlo in
questura. Lui ci è andato perché non ha nulla da nascondere. Lo
hanno interrogato per tre giorni. Poi è successo qualcosa. Il 15
dicembre Pinelli è precipitato dalla finestra dell’ufficio del
commissario Calabresi. La stessa fine di Andrea Salsedo, il tipografo
sindacalista anarchico amico di Bartolomeo Vanzetti, che “volò”
da una finestra al quattordicesimo piano del Dipartimento di
Giustizia di New York dopo essere stato fermato e trattenuto due mesi
perché sospettato di aver stampato opuscoli sovversivi. Pinelli ha
fatto la stessa fine. Il questore Marcello Guida, nel 1942 uomo di
fiducia di Mussolini e direttore del confino politico di Ventotene,
già 20 minuti dopo, ha dichiarato che Pinelli si è suicidato e che
il suicidio è stata una ammissione di colpevolezza perché “l’alibi
era crollato”. Con Carla abbiamo partecipato alla conferenza
stampa organizzata dagli anarchici milanesi al Circolo Ponte della
Ghisolfa il giorno dopo la morte di Pinelli e l’arresto di un altro
anarchico, Pietro Valpreda. Cazzate. 20 dicembre 1969
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Capitolo 5
Inizia
così il diario di mia madre. Sulla copertina c’è scritto "A
come amore" e la A è quella cerchiata dell’anarchia. Mi
faccio due conti e capisco che quel giorno c’ero anche io con lei
al funerale di Pinelli. Non lo sapeva ancora, ma era incinta. Da quel
giorno la vita non fu la stessa. Né la sua, né quella di
tantissime altre persone. E neppure quella di zia Carla che studiava
Sociologia a Trento ma stava con noi a Milano quel giorno. Quel
giorno che segnò l’inizio di un’epoca buia che ancora oggi non
sembra essere del tutto terminata. Da quel 12 dicembre 1969 l’Italia
fu scossa da nove stragi, tre tentativi di golpe scoperti, la
cospirazione della politica (la Piddue), quindici anni di omicidi
politici firmati da rossi e neri, l’abbattimento di un aereo di
linea senza motivo, un’escalation di delitti mafiosi.
Zia
era arrivata a Milano direttamente da Trento. All’università
militava nel movimento studentesco di Renato Curcio, Mauro Rostagno e
Marco Boato. Entrò in Lotta Continua: prima gli avversari erano il
professore, il caposquadra, il padrone da allora il nemico divenne lo
Stato.
Di
queste cose ne abbiamo sempre parlato molto con lei. Ci ho vissuto
insieme per tanto tempo e certi argomenti spuntavano fuori ogni qual
volta si parlava di politica, ogni qual volta dovevo andare alle
manifestazioni. Ma erano discorsi astratti. Adesso sento il bisogno
di approfondirli perché hanno segnato la vita di mia madre. Perché
forse, come sostiene Daniele, se Pinelli non fosse stato ucciso lei
non si sarebbe lasciata coinvolgere così tanto dalla politica. Forse
avrebbe evitato di fare domande, di andare a curiosare su cose che
ancora oggi restano avvolte nel mistero. Quel che è certo è che
dopo quel 15 dicembre del 1969 ha cambiato modo di vivere e di essere
parte della società.
Fino
ad allora, scrive nel diario, «Non
ho mai frequentato da militante sezioni di partito, e neppure circoli
libertari. Dopo la morte di Pinelli sono andata a bussare alla porta
dello scantinato di via Vettor Fausto dove Aldo e Anna, subito dopo
la Liberazione, avevano aperto la sede del Gruppo anarchico Cafiero,
già aderente ai Gruppi di Iniziativa Anarchica. Sulle pareti, in
bella grafia, qualcuno aveva affrescato motti del tipo: «Il
Vaticano è come un pugnale nel cuore d’Italia», «Anarchico è il
pensiero e verso l’anarchia va la storia», «Il denaro, ecco il
nemico, pervertitore di ogni sentimento retto». Il più ardito che
s’è conservato: «Solcati ancor dal fulmine eppur l’avvenir siam
noi!». Dentro la vetrina, ben ordinate, le collezioni di «Umanità
Nova», dell’«Adunata dei Refrattari», dell’«Internazionale»,
di «Volontà», e poi i libri in vendita: Gori, Fabbri, Malatesta.
Sul tavolo, la macchina da scrivere, una Olivetti a carrello lungo
che Adriano Olivetti regalò alla redazione di Umanità nova e che,
dopo la scissione del 1965, finì lì. E ancora la biblioteca, con un
migliaio di libri, aste e bandiere, quelle con la fiaccola, e i
manifesti per le vittime politiche. Al Cafiero ho conosciuto Andrea
che si dice abbia frequentato Malatesta; Perugia che ha scontato una
lunga pena per «delitto d’onore», Italo che era stato confinato
a Ventotene per undici anni. Nessuno ha meno di settant’anni. Ci
parlano di Sacco e Vanzetti, dei martiri di Chicago. Ci consegnano
una storia di sterminio fatta di sedie elettriche, vili garrote,
carcere, esilio, povertà».
Al
Cafiero, così dice nel diario, hai conosciuto anche Franco, un
toscano che studiava a Roma. A lui che la interrogava sull’anarchia
ha dedicato una pagina. Oggi
Fra mi ha chiesto perché non voglio iscrivermi a nessun circolo
libertario, né alcun gruppo pur sostenendo di essere un’anarchica.
Ho cercato di spiegargli che per me essere un’anarchica non è un
marchio di fabbrica. È un sentimento, una condotta di vita. Del
resto ho scoperto di essere un’anarchica solo dopo aver letto “Il
buon senso della rivoluzione” di Malatesta e “Il miglior governo
è quello che non governa affatto”, di Henry Thoureau. E la
conferma mi è arrivata da Bakunin, da Protpokin, da Stirnern, da
Cafiero, da Emma Gooldman. Ho ritrovato in quegli scritti le mie
piccole battaglie contro l’ingiustizia, per l’egualitarismo e la
libertà. Purtroppo la maggior parte di queste lotte si sono concluse
con la sconfitta. E questo mi tormenta. Spero almeno che nel campo
dove ho seminato il seme della solidarietà, del rispetto degli
ultimi, dell’amore senza interessi, cresca forte un nuovo
sentimento anarchico. Voglio illudermi che quel sentimento generi un
rivoluzionario che si impegnerà, attraverso l’esempio, a fare
proseliti. E così via. Perché tutti possono contribuire alla
diffusione dell’Anarchia dimostrando che si può vivere in una
società dove si aiuta e si viene aiutati, dove si ama e si è amati
con la stessa intensità e senza chiederlo, dove tutti sono
rispettati per quello che sono. Consapevoli di essere parte di
un’umanità soggiogata ma non doma, forte solo della propria
dignità e coerenza.
È
possibile! Si può fare».
Malatesta,
Stirner, Bakunin, Kropotkin, Goldman. Mia madre aveva
letto quasi tutti i loro saggi sull’anarchia e amava citarli.
Questo me lo ricordo, anche se ero piccola. E da grande rileggere
quei libri mi ha fatto sempre sentire meno sola. Quando voglio sapere
come la pensa lei su qualcosa vado a cercare lì. Parlava a ruota
libera della polemica tra comunisti autoritari e libertari, dello
scontro tra Marx e Bakunin, delle persecuzioni dei bolscevichi in
Russia dopo il 1917. Racconti che alternava alle storie di anarchici
che avevano pagato con la morte. Mi narrava, quasi si trattasse di
una fiaba, di Gino Lucetti che voleva ammazzare Mussolini, del cuoco
Giuseppe Passannante che cercò di uccidere Umberto I e che fu chiuso
in una cella sotto il livello del mare nella fortezza di
Portoferraio. E poi di Romeo Frezzi che venne arrestato perché
ritenuto complice di un altro attentatore di Umberto I, Pietro
Acciarito, e morì in galera in circostanze misteriose. Le guardie
dissero che si era suicidato, invece un medico, il dottor Pardo,
accertò che Frezzi venne ucciso. Ma soprattutto parlava di Gaetano
Bresci che ammazzò il re e che venne ucciso nel carcere di Santo
Stefano. Ogni volta che andavamo a Ventotene ci facevamo portare dai
pescatori all’isola per andare a mettere i fiori sulla sua tomba.
In realtà nessuno sa in quale di quelle fosse sono state messe le
ossa dell’anarchico. Ma noi avevamo deciso che il sepolcro di
Bresci non poteva che essere quell’unico mucchio di terra che
d’estate e d’inverno era ricoperto di capelvenere sul quale era
stata piantata la più sgangherata delle croci.
Quando
parlava degli anarchici li definiva come dei miserabili che aiutavano
chi era più miserabile di loro. Questo voleva essere lei. Lei che
eri contro ogni tipo di violenza.
Quando
a casa si discuteva sugli attentati, sugli omicidi che in quegli anni
riempivano le pagine dei giornali lei prendeva le distanze recitando
a memoria il credo di Malatesta: «L’idea centrale dell’anarchismo
è l’eliminazione della violenza dalla vita sociale: è
l’organizzazione dei rapporti sociali fondati sulla libera volontà
dei singoli, senza l’intervento del gendarme. Perciò siamo nemici
del capitalismo che appoggiandosi sulla protezione dei gendarmi
costringe i lavoratori a lasciarsi sfruttare dai possessori dei mezzi
di produzione o anche a restare oziosi e a patire la fame quando i
padroni hanno interesse a sfruttarli. Perciò siamo nemici dello
Stato che è l’organizzazione coercitiva, cioè violenta, della
società. La violenza è giustificabile solo quando è necessaria per
difendere se stesso e gli altri contro la violenza. Dove cessa la
necessità comincia il delitto».
Era
anarchica mia madre, ma non nell’accezione che la maggior parte
delle persone dà a questo termine. Da quello che mi ricordo io, ma
soprattutto da quello che mi hanno raccontato papà, zia Carla, zia
Moira e ora Daniele, non amava l’ordine costituito e le interessava
il punto di vista di ogni singola persona. Soprattutto dei border
line. C’era di sicuro in lei una visione romantica dell’anarchia,
identificata con l’emarginazione come un’esclusione totale,
assoluta dalla società, dalle convenzioni dominanti. Non era mai
stata interessata a far parte di questo o quel movimento pur
condividendone gli obiettivi, perchè era attratta dall’individuo,
da quelle donne e uomini apparentemente senza tempo, che restavano ai
margini. Le uniche persone che secondo lei conservavano la purezza
originaria. E anche lei volevi vivere ai margini. «Aveva una forte
propensione ad auto-escludersi», mi ha sempre detto zia. «Non credo
si sia mai sentita completamente a suo agio nel movimento. Nelle
nostre battaglie lei c’era sempre, ma non faceva parte del gruppo.
Il suo essere anarchica e per giunta individualista si prestava
benissimo anche a non rompere con nessuna delle componenti della
propria esistenza».
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Capitolo 6
Maria
seguiva con la massima attenzione l’inchiesta che Camilla Cederna
pubblicava passo dopo passo su L’Espresso. Si vede dagli appunti
che ha preso su questo quaderno1.
Così come, giorno dopo giorno, la battaglia portata avanti da Lotta
Continua sul giornale per far luce sull’assassino di Pinelli.
Battaglia che iniziò il giorno stesso del suo funerale. Lo dimostra
la raccolta che conservava gelosamente e che sono stati riposti nella
soffitta della casa di Ventotene dopo la sua morte. Ho trovato il
numero del 20 dicembre 1969. In prima pagina c’è la foto del
cortile della Questura con una freccia bianca che indica la finestra
da dove è caduto Pinelli. È quella del commissario di polizia,
Luigi Calabresi, che nella Questura di Milano si occupava appunto di
anarchici e che aveva condotto l’interrogatorio del ferroviere. In
terza pagina c’è una foto di gruppo dei dirigenti della questura.
Calabresi è l’ultimo a destra, l’unico senza cravatta, ma non
compare il suo nome. Solo sul giornale del 7 marzo1970, Lotta
Continua, fece il suo nome, peraltro sbagliandolo: «è il dott.
Calabrese».
Da
quel numero il giornale iniziò una dura campagna contro di lui. Con
vignette che, ad esempio, lo ritraggono in fasce mentre scaraventa
fuori dal box orsacchiotti di peluche, oppure vestito da scolaro che
butta di sotto i compagni di classe, o ancora vestito da cameriere
davanti a una finestra che dice a Pinelli: o ti mangi questa
minestra…. Ma soprattutto con articoli nei quali si legge:
«Calabresi,
sei tu l’accusato. […] Le nostre armi sono altre, più difficili,
faticose, pericolose, ma infinitamente più efficaci. È
l’organizzazione della forza e dell’autonomia del proletariato
che farà giustizia di tutti i suoi nemici. Dell’assassinio di
Pinelli abbiamo detto a chiare lettere che il proletariato sa chi
sono i responsabili e saprà fare vendetta della sua morte»
(14-5-1970).
«Questo
marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo
alle costole, ormai, ed è inutile che si dibatta come un bufalo
inferocito. […] Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi
per falso in atto pubblico. Noi, più modestamente, di questi nemici
del popolo vogliamo la morte» (6-6-1970).
Mentre
leggo mi rendo conto che questo tipo di articoli oggi non sarebbero
mai usciti e che forse nessun giornalista avrebbe mai avuto il
coraggio di pubblicarli.
«Siamo
stati troppo teneri con il commissario di pubblica sicurezza Luigi
Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente.
[…] Il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i militanti
che hanno imparato a odiarlo; la sua funzione di sicario è stata
denunciata alle masse che hanno incominciato a conoscere i propri
nemici di persona, con nome, cognome e indirizzo. È chiaro a tutti,
infatti, che sarà Calabresi a dover rispondere pubblicamente del suo
delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la
sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli
e Calabresi dovrà pagarla cara. […] Il terreno, la sede, gli
strumenti della giustizia borghese sono del tutto estranei alle
nostre esperienze, alle nostre lotte, alle nostre idee, e non è
certamente dalla legge dello Stato capitalista che ci attendiamo la
punizione di un suo servo zelante; non dai giudici “progressisti e
onesti”; non da un dibattimento i cui codici, norme e regole,
creati dalla borghesia per controllare gli sfruttati, non possono
essere utilizzati dai proletari, ma solo da questi distrutti. […]
Ma dentro il tribunale, nelle strade e nelle piazze, il proletariato
emetterà il suo verdetto, lo comunicherà e ancora là, nelle piazze
e nelle strade, lo renderà esecutivo. Calabresi ha paura ed esistono
validi motivi perché ne abbia sempre di più. […] L’imputato e
vittima del secondo [processo] è già da tempo designato: un
commissario aggiunto di ps, torturatore e assassino: Luigi Calabresi.
Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli
sfruttati; ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa
fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato
assassino» (6-6-1970). «Calabresi, assassino, stia attento. Il suo
nome è uno dei primi della lista» (6-5-1971).
Tutte
frasi che mia madre ha puntualmente annotato nel suo diario. Senza
alcun commento. Come se avesse voluto fissarle nella testa. Non so se
le condivideva o meno. Certo è che anche lei era convinta che
Pinelli fosse stato ucciso.
Sono
passati 3 mesi dalla morte di Pinelli e sono riusciti a dare tre
versioni contrastanti della sua fine. Ho parlato con alcuni anarchici
di Milano. Tutti accusano la polizia di assassinio e i fascisti e lo
stato di essere gli autori delle stragi. Anche io non ho dubbi. Si è
scoperto che a mezzanotte meno due secondi (2 minuti e 2 secondi
prima della caduta di Pinelli) venne chiamata l’autoambulanza. La
stanza dell’interrogatorio larga 3,56 metri x 4,40 e contenenti
vari armadi e scrivania e la presenza di 6 persone rende impossibile
uno scatto di Pinelli verso la finestra. E poi non è strano che la
finestra fosse aperta trattandosi di dicembre e di notte? Pinelli
cade scivolando lungo i cornicioni. Non si è dato quindi nessuno
slancio. Cade senza un grido e senza portare le mani a protezione
della testa, come se fosse già inanimato. Ma perché continuano a
raccontare tutte queste bugie? E comunque le guardie avevano il
dovere di salvaguardare la vita di Pino. Si trattava di un cittadino
affidato alla loro custodia e soprattutto, secondo loro, di una
preziosa fonte. Almeno di questo dovranno rispondere. E poi, perché
lo trattennero per tre giorni quando lo stesso Calabresi ha ammesso
in una intervista su l’Unità che contro Pinelli non avevano nulla?
Un funzionario della Polizia, la mattina del 15 dicembre, aveva detto
alla madre che non era collegato alla strage, ma che comunque c’erano
state pressioni da Roma per il suo fermo. E che cosa c’era di tanto
interessante nel libretto chilometrico di Pinelli, ovvero il
tesserino in cui segnava i suoi viaggi, che fu mandato a prendere a
casa del ferroviere alle undici di sera del 15 dicembre? 19 marzo
1970
Non
mi ero mai interessata più di tanto a questa storia. La conosco
certo, ma sapere come l’hai vissuta mia madre è un tassello che mi
sembra fondamentale per sapere veramente chi era lei. Qualche pagina
più avanti trovo scritto:
Il
commissario Calabresi ha querelato Pio Baldelli, direttore
responsabile del settimanale Lotta Continua per diffamazione
continuata e aggravata circa la defenestrazione di Pinelli. Oggi
Calabresi ha deposto in tribunale mentre la gente urlava assassino,
buffone, buttati dalla finestra. Il vicequestore Vittoria ha
autorizzato una carica nei corridoi di Palazzo di giustizia. I
compagni hanno organizzato un sit in al primo piano. 14 ottobre 1971.
Anche
se risulta che il vicecommissario non fosse nel suo ufficio nel
momento del volo di Pinelli, per Lotta Continua, credo che anche per
mia madre quello di Calabresi è «il
primo volto dei burattinai della strategia della tensione a cui sia
stata strappata la maschera»2.
Mi
hanno detto che Pinelli con involontaria vena profetica, predispose
che, alla sua morte, venissero incisi sulla lapide i versi di una
stupenda poesia tratta da Spoon River di Edgar Lee Masters, che parla
dell’uccisione l’11 dicembre 1887, dei cinque anarchici anarchici
ingiustamente accusati dell’eccidio di Haymarket Square (a Chicago)
il 4 maggio 1886. Il 3 maggio, di fronte alla fabbrica di mietitrici
McCormick, la polizia sparò sugli scioperanti uccidendone due e
ferendone molti. Fu quindi indetta una manifestazione ad Haymarket
Square il giorno dopo. Tutto sembrava più che tranquillo, quando la
polizia intimò di sgombrare e iniziò a marciare a ranghi serrati
per attuare l’ordine. Partì un ordigno che uccise 11 persone più
un poliziotto; altri sette, rimasti feriti, morirono nei giorni
successivi. Da qui l’indegno e puramente persecutorio processo agli
organizzatori della manifestazione. La poesia scelta va dedicata a
Pinelli e a tutti quelli che combattono i potenti, gli oppressori, i
“grandi personaggi” (politici, militari, della stampa e dello
spettacolo, finanzieri, ecc..). Questi versi non possono non
commuovere chi resta al di qua della linea di demarcazione tra senso
di umanità e il più sconfinato e arido deserto dei sentimenti.
giugno 1970
Epitaffio
di Carl Hamblin
La
macchina del “Clarion” di Spoon River venne distrutta,
e
io incatramato e impiumato,
per
aver pubblicato questo, il giorno che gli anarchici furono impiccati
a Chicago:
“Io
vidi una donna bellissima, con gli occhi bendati
ritta
sui gradini di un tempio marmoreo.
Una
gran folla le passava dinanzi,
alzando
al suo volto il volto implorante.
Nella
sinistra impugnava una spada.
Brandiva
questa spada,
colpendo
ora un bimbo, ora un operaio,
ora
una donna che tentava ritrarsi, ora un folle.
Nella
destra teneva una bilancia;
nella
bilancia venivano gettate monete d’oro
da
coloro che schivavano i colpi di spada.
Un
uomo in toga nera lesse da un manoscritto:
‘Non
guarda in faccia a nessuno’.
Poi
un giovane col berretto rosso
balzò
al suo fianco e le strappò la benda.
Ed
ecco, le ciglia eran tutte corrose
sulle
palpebre marce;
le
pupille bruciate da un muco latteo;
la
follia di un’anima morente
le
era scritta sul volto.
Ma
la folla non vide perché portava la benda”.
L’Antologia
di Spoon
River è
stato uno dei libri della mia infanzia, dell’adolescenza e tutt’ora
quando lo rileggo trovo degli spunti inediti, delle riflessioni
legate all’attualità, agli stati d’animo che provo in quel
preciso momento. È una raccolta di poesie che l’americano Edgar Lee Masters pubblicò tra il 1914 e il 1915 sul “Mirror” di St. Louis.
Ogni poesia racconta, in forma di epitaffio, la vita di una delle persone sepolte nel cimitero di un piccolo paesino della provincia americana. E mia madre usava quelle poesie per inventare delle storie che io dovevo tradurre in disegni. Da qualche parte deve esserci ancora l’album con scritto in copertina “Sole: illustrazioni all’antologia di Spoon River”. E poi ascoltavamo insieme l’album “Non al denaro non all’amore né al cielo” con le canzoni di Fabrizio De Andrè ispirate agli epitaffi di Frank Drummer, un matto; quello di Judge Selah Lively, un giudice; Wendell P. Bloyd, un blasfemo; Francis Turner, un malato di cuore; Dr. Siegfried Iseman, un medico; Trainor, the druggist, un chimico; Dippold, the optician, un ottico; Fiddler Jones, il suonatore Jones. Mi è venuta voglia di riascoltarlo. Non è stato facile ritrovare l’ellepi in mezzo a tutto il casino che ho accumulato negli anni nella soffitta, ma alla fine ce l’ho fatta. L’ho messo sul vecchio giradischi e la casa si è riempita nuovamente di lei.
Note:
1
Articoli che poi
diedero vita al suo libro Pinelli, una finestra sulla strage.
Un libro nel quale c’è tutta l’opera di depistaggio intorno
alla morte di Pinelli, le macchinazioni del Pm Caizzi e del giudice
Amati per archiviare il caso, le false, incongruenti,
contraddittorie testimonianze del questore Guida, del brigadiere
Panessa, del commissario Calabresi e poi il processo Calabresi-Lc,
la magistratura servile alla ragion di Stato.
2
Il giornale, appoggiato
da quarantaquattro redazioni di riviste politiche e culturali che
sottoscrivono un documento di solidarietà, ha raggiunto così il
suo obiettivo: quello di tornare a parlare di Pinelli dopo che
l’istruttoria sulla sua morte è stata archiviata)
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