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Ⓐ come amore

Attraverso il diario di un'anarchica morta in circostanze misteriose, ritrovato casualmente dalla figlia dopo trent'anni, viene raccontata la storia d'italia a partire dalla morte di Pino Pinelli fino al sequestro di Aldo Moro. La protagonista è una giovane donna che vive a Ventotene e che attraverso il diario e i racconti degli amici della madre riesce a scoprire non solo chi era lo sconosciuto brigatista di via Fani a bordo della Honda, del quale parlano tanti testimoni mai realmente identificato, ma anche a dipanare molti dei misteri legati al sequestro e all'omicidio del presidente della Dc. 

Per leggere il romanzo basta cliccare sui capitoli qui a fianco...

Avvertenze

La storia qui narrata si base su documenti reali: rapporti di polizia, articoli di riviste e di quotidiani nazionali, atti di processi. Sarebbe difficile affermare che questo è un romanzo.

La stragrande maggior parte di ciò che viene qui narrato è frutto della fantasia dell'autore, delle sue personali e per nulla attendibili versioni dei fatti accaduti in Italia tra il 1969 e il 1978. L'informazione basata sui documenti rappresenta soltanto l'infrastruttura su cui è costruita la finzione.

Sarebbe difficile affermare che si tratta di un testo fatto di testimonianze, ovviamente questo è un romanzo.

Il sangue politico: è in arrivo il nuovo libro


Questa è la storia di Gianni Aricò, di Angelo Casile, di Annelise Borth, di Franco Scordo e di Luigi Lo Celso che trovarono la morte a soli vent'anni in uno strano incidente stradale sull'autostrada del Sole, nei pressi di Ferentino, la notte tra il 26 e il 27 settembre 1970. Erano partiti dalla Calabria per portare a Roma, ai compagni della Federazione Anarchica Italiana, un dossier di contro-informazione misteriosamente scomparso dal luogo dell'incidente. La loro vicenda e il dossier che avevano messo insieme si intreccia con alcune delle pagine più oscure e insanguinate della storia italiana collegate da un inquietante filo nero che parte da piazza Fontana, passa per i moti di Reggio, la strage di Gioia Tauro, il golpe Borghese. E ancora il caso Marini, l'omicidio De Mauro, la tragica fine di Mastrogiovanni. Questa è la storia di cinque anarchici che avevano scoperto cose che “avrebbero fatto tremare l'Italia”. Questa è la storia di cinque ragazzi che capirono prima di altri che l'Italia, un Paese che aveva sconfitto sul campo il fascismo, non lo aveva però estirpato, consentendo a beceri individui assetati di potere e di sangue di farlo rinvigorire e crescere fino ai giorni nostri dove convivono vecchie e nuove dittature con la loro carica di violenza e disumanità. Li hanno fermati.
 

Prefazione di Erri De Luca

Ed. Editori Riuniti
Il 25 Aprile  in libreria 


Per approfondire la storia e il periodo visita il blog "Il sangue politico" con documenti, foto e libri scaricabili gratuitamente in PDF



Prologo




Io so chi c’era quella mattina del 16 marzo a via Fani. I so chi sono i motociclisti che hanno partecipato al rapimento di Aldo Moro. Io so perché si sono perse le loro tracce. Io so chi c'è dietro l’assassinio del presidente della Dc. Io so chi ha ucciso mia madre. Io so perché è morta. Io so chi ha rovinato la mia vita e quella di tante altre persone. E so anche che dovrei raccontare tutto.



Mio padre mi sta aspettando a Formia. L’ho chiamato appena ho letto quei fogli che mi ha lasciato sul comodino. Verrà a prendermi al porto, all’attracco del traghetto che arriva da Ventotene. Io, però, ancora non ho deciso cosa fare.

La ragione mi dice che devo andare dai carabinieri e fare una denuncia: ho una dichiarazione firmata dalla stronza. Ma il cuore no: se lo facessi, inevitabilmente verrebbe coinvolto anche lui. Eppure non è giusto continuare a mantenere un segreto così grande, che non coinvolge solo la mia famiglia. Non si tratta più solo di un affare privato. La mia non può essere solo vendetta nei confronti dei mandanti dell'assassinio di mia madre, eppure mi fa uno strano effetto pensare che lo dovrei fare per lo "Stato", per la “giustizia”. Quello Stato e quella giustizia che ancora non hanno dato un nome all’assassino di Pino Pinelli. Né a quello di Giorgiana Masi, né di Piero Bruno, né a quello di tanti altri. Quello Stato e quella giustizia ai quali mia madre, anarchica, non credeva più.



Il signor Aniello mi è venuto a prendere a casa con l'auto per evitare che facessi tutta quella strada a piedi. Si meraviglia che non abbia neanche una valigia con me. La borsa è più che sufficiente per portarmi appresso quei segreti, anche se pesano come un macigno. 
Mi accompagna al porto e sale come me sul traghetto per assicurarsi che trovi un posto comodo, viste le mie condizioni di donna incinta. Di solito, anche d'inverno, preferisco mettermi sul ponte per salutare chi resta a terra e poi vedere sparire piano piano la mia isola, quasi che il mare la inghiottisse per conservarmela immutata al ritorno. 
Abbraccio forte il mio amico Aniello per cercare in lui, un vecchio uomo di mare ricco di umanità e esperienza che mi ha visto crescere, quel coraggio che non ho. Sprofondo nella mia poltrona cercando di riordinare le idee e trovare una soluzione. Eppure le uniche cose che mi vengono in mente sono l’odio per Daniele che mi ha coinvolta in questa storia, la rabbia verso mio padre che mi ha tenuto sempre all’oscuro di tutto, e il disprezzo per lo Stato che non è stato capace di trovarsi da solo i colpevoli.

Mio padre mi sta aspettando a Formia. E io, con la sensazione di vivere solo un sogno, riapro i diari di mia madre alla ricerca di una soluzione. Se lei fosse stata al mio posto avrebbe saputo certamente cosa fare. Io no.

Capitolo 1

Caspita è molto meglio che in tv. Appena è sceso dall’aliscafo gli ho fatto segno con la mano per essere notata e lui mi ha raggiunto con un enorme mazzo di fiori. Daniele mi ha abbracciato forte spiegandomi che ogni fiore corrispondeva ad un anno che non ci siamo visti. Sa di buono, di pulito. I capelli spettinati, la barba incolta e pure le rughe attorno agli occhi non riescono a nascondere i lineamenti delicati del viso, il naso perfetto e le labbra carnose. Mi ha preso le mani e mi ha fatto notare che non ho anelli. Neanche la fede (vaglielo a spiegare che mi sono gonfiate anche le dita). Mi ha lasciato la sinistra e mi ha alzato la destra come se volesse farmi ballare, invece mi ha solo girato attorno scrutandomi. Dalla testa ai piedi. Non ha detto nulla, ma io so quello che ha pensato. E lo ho anticipato per togliermi dall’imbarazzo: «Non le somiglio per niente». «Molto più somigliante a tua madre di quanto tu credi, Sole, fidati», mi ha contraddetto sussurrando, come si trattasse di un segreto: «Affascinante allo stesso modo». Poi ha tirato fuori dalla borsa che portava a tracolla un pacchetto. Me lo ha dato chiedendomi di aprirlo non appena se ne fosse andato. Ho promesso, nonostante la curiosità mi stesse divorando.
Mi aveva telefonato da Formia chiedendomi se poteva raggiungermi a Ventotene.
«Principessa sono Daniele», mi sono sentita dire da una voce di uomo.
Ho avuto un tremito. «Daniele chi?».
«Daniele Impellizzeri e cerco Sole, la bambina di Maria». Ma quella bambina è diventata una donna e lui è un attore famoso.
«Cosa vuoi? Non ci vediamo da ventidue, ventitre anni e mi cerchi qui? », ho ribattuto con un misto di diffidenza, curiosità e disagio.
«Hai ragione, Sole. Ma ho veramente bisogno di vederti. Sono a Formia e se tu vuoi mi imbarco sull’aliscafo delle 17,30 per venire da te».
E quello che ho provato dopo avergli detto sì solo tu, mamma, lo puoi capire. Solo tu puoi capire lo stupore e l’ansia di rivederlo qui nel volontario esilio dal resto del mondo. Un allontanamento indispensabile per godere fino in fondo, fin da subito, questa nuova esperienza della mia vita. Finalmente, mamma, sto per diventare mamma, e voglio assaporare tutti i cambiamenti umorali, fisici, psichici che questo comporta fin dai primi mesi della gravidanza. Voglio stare sola con me stessa, con la mia bambina, ma soprattutto con te. Ci sono giornate in cui avverto la tua presenza in modo molto forte. Come adesso che sto portando a casa nostra il tuo amico Daniele.
Di lui ricordo poco. Un bell’uomo, un ciuffo al vento, qualche conversazione movimentata in casa. Per me una carezza o un sorriso. Ricordi sfumati che ho provato a mettere a fuoco in quelle due ore che dalla telefonata mi restavano all'arrivo dell’aliscafo. Ma niente. Quello che mi viene in mente mentre sistemo un po' casa è solo l'immagine dell'attore, quello che ho visto in questi anni in tv o al cinema. E per incontrare l'uomo famoso devo mettere a posto anche me stessa. Mi guardo nello specchio chiedendomi cosa penserà “l’amico di Maria” vedendomi. La risposta è una sola: una trentenne con un pancione troppo grande e i vestiti troppo stretti. Ma come fanno a dire che le donne incinte sono belle, penso mentre cerco nell’armadio qualcosa di più decente da mettermi. Non riesco a trovare niente di meglio che un paio di pantaloni militari. Ovviamente non si allacciano, ma è sempre meglio di quelle vecchie tute di mio marito che attualmente costituiscono il mio guardaroba. Purtroppo anche le magliette si sono ristrette. O meglio sono le mie tette che sono cresciute. Del resto sono al settimo mese di gravidanza, ma mi sento bene. Anzi benissimo e in men che non si dica ho lavato i piatti accumulati nel lavandino, ho passato lo straccio, ho dato una pulita al bagno e poi sono scesa al porto ad accoglierlo sulla nostra isola.

Capitolo 2

Daniele si è fermato a Ventotene solo due giorni. E devo confessare che nonostante i timori iniziali, la sua visita mi ha fatto molto piacere. È stato molto gentile e ha voluto che gli mostrassi i posti di Ventotene che mia madre amava di più. Per prima cosa l’ho accompagnato a punta Eolo. Abbiamo attraversato il sentiero nascosto vicino al cimitero, rigoglioso, in questo periodo dell’anno, di aloe, fichi d’india, ginestra, e canne. Ci siamo arrampicati sulle rocce, abbiamo sbirciato nell’area archeologica della villa di Giulia e gli ho raccontato di quante storie ci inventavamo sugli antichi abitanti di quei ruderi che all’epoca erano completamente abbandonati. Poi ci siamo seduti sul nostro scoglio, quello in “pizzo in pizzo” dove contavamo le barche e aspettavamo il traghetto. Siamo rimasti in silenzio a guardare l’orizzonte. Ognuno assorto nei propri pensieri. Stava per alzarsi e tornare indietro quando l’ho preso per una mano e lo fatto rimettere seduto. «Perché hai voluto vedermi?», gli ho chiesto. Avevo rimandato la domanda per tutta la passeggiata aspettando il momento più adatto. Era arrivato.
«Speravo che me l’avessi chiesto, Sole. Voglio che tu sappia la verità. E il regalo che ti ho portato ti aiuterà a farlo. Intanto vorrei raccontarti una storia partendo dalla fine. Dall’ultima sera che Maria ed io ci siamo visti. Mentre l’accompagnavo a prendere l’auto mi ha confidato di aver scoperto chi sia chi era quell’Igor che stava cercando da alcune settimane e di aver capito chi era a gestire il sequestro Moro. Era nervosa perché non sapeva come comportarsi. Le dissi di stare attenta. Mi baciò per l’ultima volta». Quello che accadde due giorni dopo è storia. La storia della mia vita.
Era il primo maggio del 1978 e mamma mi stava raggiungendo a casa di nonna a Campagnano. Con la sua Renault 4 rossa si è schiantata contro un camion che con il suo carico di 300 quintali di pomodori arrancava a 45 chilometri l’ora sulla Cassia bis, subito dopo le Rughe. Non c'è stato nulla da fare. Il caso fu frettolosamente archiviato come incidente. Ma Daniele mi ha detto di non averci mai creduto.
«Innanzitutto», ha ripreso a raccontare accendendosi il sigaro che teneva spento tra le labbra, «è curioso che il camionista avesse deciso di fare quel viaggio proprio il Primo maggio. Perché invece di godersi il meritato riposo della festa dei lavoratori si è messo alla guida»?
«Ma la cosa più strana», ha insistito, «è che niente dei suoi effetti personali furono riconsegnati a tuo padre. Neppure i suoi vestiti o le cianfrusaglie che aveva in tasca e nella borsa. Così come non c’è più traccia al ministero degli Interni del rapporto che la polizia stradale promise di inviare insieme ai documenti e il materiale trovato nell’auto». Daniele mi ha detto di essere convinto che ci fosse qualche cosa legata all’indagine sulla quale tu stavi lavorando. Io non riuscivo a capire di cosa stesse parlando e non so se mi interessa, visto che ripensare alla tua morte mi fa star male.
«Secondo me quell’Igor di cui parla tua madre è Igor Markevitch», ha continuato Daniele dopo aver aspirando profondamente il cubano nel silenzio più totale. «Il 14 ottobre 1978 una fonte del Senato segnalò che un certo Igor aveva avuto un ruolo di primo piano nell’organizzazione delle Brigate rosse e che, in particolare, avrebbe condotto tutti gli interrogatori di Moro, della cui esecuzione sarebbero stati autori materiali certi “Anna” e “Franco”. La persona fu identificata con Igor Markevitch, grande direttore d’orchestra di fama internazionale, oriundo russo ed ora cittadino italiano, coniugato con Topazia Caetani. Ma dopo alcuni accertamenti con l’intervento dei servizi segreti, non emersero elementi concreti che indicassero nel maestro l’appartenenza alle Brigate rosse. Sul finire degli anni Novanta, trapelarono strane notizie sulla possibile presenza alle riunioni del comitato esecutivo delle Brigate rosse di un personaggio di primissimo piano. Fu il dissociato Valerio Morucci che parlò di un “anfitrione”, di un personaggio misterioso che a suo dire avrebbe messo a disposizione delle Br, per le riunioni, una villa vicino a Firenze. Da successivi elementi emerse l’ipotesi che l’uomo potesse essere proprio Markevicth, che tra le altre cose aveva un passato nella resistenza nelle formazioni dei Gap».
Daniele si è alzato e si è avvicinato al precipizio. Ha proseguito il suo monologo come se si trovasse su un palcoscenico, di fronte al pubblico. La cosa mi ha dato un senso di nausea e credo di essermi distratta. «Man mano che prendeva quota la leggenda del Grande Vecchio, il senatore Pellegrino, presidente della Commissione Stragi, riaprì le indagini su alcune segnalazioni che le inchieste giudiziarie avevano tralasciato, e a poco a poco prese corpo una storia straordinaria. Pellegrino affidò le indagini al maggiore Massimo Girando dei ROS, uno dei migliori uomini dell’arma dei carabinieri, direttamente alle dipendenze del generale Mori, allora comandante generale dei carabinieri. L’indagine, che si concluse nel 2001, portò alla scoperta di un intreccio di poteri forti, intelligenze segrete, massonerie internazionali che sarebbero ad un certo punto subentrate nella gestione del sequestro Moro. Mi ascolti?».
Sì, stavo ascoltando. Ma facevo fatica a star dietro a quello che mi stava dicendo. Non ho osato però fare domande. Ho avuto paura di sapere. «Igor Markevicth», ha seguitato Daniele accendendosi il sigaro ormai spendo, «si scoprì che già durante la prigionia del presidente Dc era noto al Sismi. Ma le indagini condotte su di lui dal servizio segreto furono interrotte da un intervento “superiore”. Era il primo maggio 1978, mancava ancora una settimana al compimento della tragedia, quando due agenti del nostro controspionaggio si recarono a Palazzo Caetani, nella stessa strada dove otto giorni dopo sarebbe stata ritrovata la Renault rossa con il corpo di Moro. I due agenti, su richiesta del loro diretto superiore, cercavano informazioni su un certo Igor Caetani, ma non c’erano discendenti maschi nella nobile famiglia romana. L’ultimo era Michelangelo che aveva avuto soltanto una figlia femmina, Topazia, sposata con il musicista Igor Markevicth, direttore dell’Accademia di Santa Cecilia, dal quale però era ormai divorziata. Il domicilio di Palazzo Caetani era da tempo di Hubert Howard, vedovo di Lelia, la cugina di Topazia morta da oltre un anno. Le indagini si bloccarono per colpa di un non meglio identificato “ordine superiore”, forse impartito dal capo del Sismi e ai due agenti, non restò che constatare che la missione era fallita proprio lì, in via Caetani, quando si stava per aprire la “porta segreta”».
In quel momento moriva mia madre.
In silenzio mi sono alzata e sono andata via con gli occhi pieni di lacrime. Se avessi potuto lo avrei fatto scomparire, ma Daniele mi è venuto dietro cambiando completamente discorso.
«Non ha mai voluto che la raggiungessi qui», ha iniziato a urlare mentre mi raggiungeva. Io avevo già ripreso a a ritroso il sentiero in mezzo alle ginestre e le aloe. «E dopo la sua morte non ha avuto più senso venire a Ventotene. Ora che sento il profumo che tua madre ha cercato di descrivermi un’infinità di volte, ora che vedo il colore del mare e lo spettacolo affascinante di Santo Stefano ho finalmente capito perché diceva che era un’isola magica. Un’isola che secondo lei ha il potere di ammaliarti e di non lasciarti più andare via. Ma queste sono cose che tu sai meglio di me».
È vero. Mia madre avrebbe voluto vivere qui a Ventotene. Avrebbe voluto mollare tutto e trasferirsi qui con me. Ma poi c’era sempre qualcosa che la faceva desistere, cogliendo comunque ogni occasione per tornarci, soprattutto d’inverno quando c’erano al massimo duecento persone.
Ho invitato Daniele a togliersi le scarpe e a camminare scalzo, così come faceva lei. Sostenevi che in questo modo si poteva incamerare l’energia del vulcano del quale Ventotene rappresenta solo la parte visibile, e io ci credevo. Ci credo. Ce le siamo tolte entrambi ed abbiamo camminato a piedi nudi fino a piazza Castello per prenderci l’aperitivo da Verde.
«Mia madre era innamorata di te?», gli ho chiesto tutto d’un fiato cercando di cogliere sul suo viso un’espressione che mi desse la risposta prima ancora della sua voce. Daniele si è acceso ancora una volta il sigaro prima di parlare. Ha aspirato e gli occhi si sono illuminati come la brace del toscano che teneva in bocca. «Credo di sì. A modo suo, ma credo di sì».
«E tu?», lo ho interrogato ancora.
Anche questa volta la risposta non è stata immediata. Come se volesse trovare le parole giuste: «Ho cercato di negarlo anche a me stesso, ho fatto di tutto per non dimostrarglielo. Per dimenticarla. Ma non ci sono riuscito, anche se mi faceva stare male».
«Mia madre ti faceva stare male? Zia dice che eri tu a farla stare male», lo ho interrotto incuriosita, ma anche orgogliosa di avergli estorto questa confessione che ribalta completamente la tesi di Moira per cui tu eri vittima del fascino di quell’uomo.
«Non la capivo. Diceva di amarmi, ma non avrebbe mai lasciato tuo padre senza di te. Perchè a modo suo amava anche lui, che la tradiva e la trattava come una pazza. Non voleva privarlo della gioia di stare con sua figlia. Era una donna libera, ma con un grande senso di responsabilità. Non credo che Maria abbia mai avuto altre storie. Con me era diverso, perché noi non eravamo amanti, noi stavamo anche giorni senza vederci o sentirci, noi non ci facevamo promesse, il sentimento che ci legava era qualcosa di trascendentale che non aveva niente a che vedere con il sesso e il possesso. Purtroppo trent’anni fa non sono stato capace di comprenderne l’importanza, e oggi darei qualsiasi cosa pur di abbracciarla, di baciarla, di rassicurarla che quello che lei provava per me era esattamente quello che io provavo per lei. Se solo avessi avuto il coraggio di dirle che l’amavo, forse il destino sarebbe stato diverso».
Daniele mi ha guardato negli occhi in attesa di commento, di una replica a quanto mi aveva appena rivelato. Ma io non sapevo cosa dire, perché non riuscivo a capire che effetto avesse avuto su di me questa dichiarazione d’amore per mia madre aggiunta ai dubbi che mi aveva insinuato a Punta Eolo. Per fortuna si è avvicinata al nostro tavolo una signora per chiedergli l’autografo. Rimessi i panni dell’attore famoso, abbiamo iniziato a chiacchierare di cinema, dei suoi colleghi, dei registi e dei film in circolazione.
Ho anche cucinato per lui. Pasta alla norma. Anche questo, ha detto Daniele, era il segno che io sono uguale a mia madre. Pure lei la preparava spesso, ma per il semplice fatto che era una delle poche cose che sapevi cucinare. Però, ho evitato di dirglielo.
Abbiamo parlato molto anche di lui. Si è sposato, ha divorziato, e da qualche tempo sta con un’attrice più giovane di venti anni. Non ha figli. Mi ha detto queste cose come se non si rendesse conto di essere una persona famosa, che la sua vita è pubblica, raccontata sui rotocalchi. In effetti non sembra sentirsi un vip, non si comporta come la gente immagina si comporti uno che ha successo, ha i soldi, fa la bella vita. Mi è sembrato un uomo come tanti, con i suoi pensieri, con il suo passato che è ancora troppo presente. In un certo senso mi fa persino tenerezza. Mi ha confidato di essere stato spesso tentato di rintracciarmi, di vedermi, di parlarmi, ma la timidezza ha avuto sempre il sopravvento. Poi un giorno ha incontrato Francesco De Blase, un amico giornalista di mia madre, che gli ha detto che ero incinta, che stavo a Ventotene. Si è fatto dare il numero del cellulare, ma sì è deciso a chiamarmi solo dopo diverse settimane.
«Comunque non erano tutte rose e fiori con Maria», ha detto pure. «Era complicata, testarda, permalosa. Non c’erano vie di mezzo con lei. Non si poteva dare niente per scontato. Quando si metteva in testa una cosa, nessuno riusciva a farle cambiare idea. Doveva rendersene conto da sola e poi forse ammetteva di aver sbagliato. Ricordo di una sera che dovevamo andare ad una festa, io però stavo male e gli dissi che non avrei potuto accompagnarla. Mi disse di non preoccuparmi e ci andò con la sua amica, Moira. In realtà alla festa ci andai. Ma non ebbi modo di avvertirla perché a quel tempo non c’erano i cellulari. Quando mi vide lì non disse nulla, non venne neanche a salutare. Mi mandò tramite Moira un bigliettino con su scritto sei uno stronzo. Poi scomparve. Non si faceva vedere in giro, non rispondeva al telefono. Dopo un mesetto, un bel giorno, mi aspettò fuori dal teatro con un regalo, un libro. Non volle sentire spiegazioni, né volle più parlare di quella serata. Era fatta così. Però era anche molto dolce, sapeva ascoltare, sapeva dare consigli. E poi era generosa, forse troppo. Anche su questo litigavamo spesso. Mi comprava cose per la mia casa, libri, dischi, quadri. Io mi sentivo in imbarazzo e glielo dicevo. Ma era come parlare al vento. Anzi si offendeva rispondendo che lei faceva quello che voleva».
Già, mia madre hai sempre fatto quello che voleva. Non le importava nulla dei giudizi della gente, né di quello che pensavano i suoi amici. Ad esempio, mi ha raccontato Daniele, di quando ha chiesto a Ciccio, cioè a Francesco, di collaborare con lei. «Era un ragazzo che voleva fare il giornalista e tua madre gli insegnò il mestiere. Non gliene importava nulla che i suoi compagni la mettessero in guardia perché frequentava la facoltà di Giurisprudenza. Perché bastava questo, a quel tempo, per farsi etichettare come “fascista”. A Maria non interessava con chi era stato visto ripassare una lezione o scambiarsi gli appunti. Gli interessava come si comportava. E lui, a quanto diceva lei, si comportava bene. Ma questo per i compagni, i suoi amici, era semplicemente assurdo, inconcepibile. Ciccio ora è un apprezzato giornalista e questo lo deve esclusivamente a tua madre. In generale Maria è stata molto liberale nei rapporti interpersonali. Ha sempre avuto una tendenza a mettersi nei panni dell’altro, ad assumere il punto di vista del suo interlocutore. E questo in politica era considerato un difetto, ma a lei non importava. Detestava l’arroganza di chi si sentiva dalla parte del giusto».
Ho voluto sapere da Daniele come si sono conosciuti, forse per non pensare alle Br, al sequestro moro, a Igor, ai servizi segreti, e a tutte quelle informazioni che mi aveva vomitato addosso a Punta Eolo. Volevo che mi raccontasse cosa facevano insieme. Di che cosa chiacchieravano. Ha iniziato a parlare solo quando l’ho lasciato in veranda per andare a mettere in tavola la cena, quasi avesse bisogno di non distrarsi per ricordare.
«Venne a La Fede, la cantina di porta Porta Portese di Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann. Avevamo messo in scena il Risveglio di primavera di Wedekind. Era il 1972. Ci siamo conosciuti lì. Mi disse che lo spettacolo le era piaciuto molto, ma anche che assolutamente ignorante sul teatro d’avanguardia. Mi chiese di farle da maestro. La prima lezione gliela diedi immediatamente. Il termine “avanguardia” è un termine improprio, dissi imitando uno di quei professori isterici che insegnavano all’accademia. Le avanguardie riguardano e si fermano a quelle storiche del primo Novecento. Da ora in poi voglio sentirti parlare di “sperimentazione” o di “ricerca”. Lei scoppiò a ridere e mi assunse come suo insegnante personale».
Daniele mi ha detto che a quel tempo era un giovane attore. Si era iscritto all’Accademia d’Arte Drammatica, ma ben presto smise di frequentare perché riteneva quel sistema d’insegnamento superato. Non teneva conto dei sommovimenti politici e sociali, né dell’energia combattiva che il teatro intendeva liberare per partecipare attivamente al trionfo delle ideologie, alle battaglie del femminismo, alle rivendicazioni del mondo gay, all’amore libero, alla libertà delle droghe. Iniziò a frequentare le cantine teatrali dove le compagnie altro non erano che gruppi formati perlopiù da amici, amanti, sorelle, fratelli e molto raramente da scritturati. Un po’ dei clan che si raccoglievano intorno a un’identità di vedute e a un desiderio di esprimersi tramite il teatro. Tutti facevano tutto. E non solo per via di una libera e consapevole scelta. Le scarse possibilità economiche imponevano che chi contribuiva a mettere in scena il testo potesse avere voce in capitolo. Così, anche se lo spettacolo era siglato dal nome del regista, veniva considerato un’elaborazione collettiva.
Daniele, da parte sua, ricorda per filo e per segno il loro primo appuntamento al Beat 72. «Si chiamava così», mi ha spiegato subito dopo essersi complimentato per l’ennesima volta della riuscita del mio piatto, «perché “beat” era una parola magica che coniugava cultura e stili di vita, e 72 perché si trovava al numero 72 di via Gioacchino Belli». Aveva un ingresso molto piccolo, ha detto, con una stretta scala che andava giù ripidissima. Si scendeva e c’era una specie di piccolo antro che serviva da biglietteria, un corridoio usato come foyer e poi tre stanze in successione, ad arcate. Un’altra sala, attigua all’ultimo di questi vani, serviva per deposito e camerini. L’unica entrata, e quindi anche l’unica uscita, era la porticina in alto. «Era novembre 1972, la sera del debutto di uno spettacolo che immediatamente diventò celebre e fu tra quelli italiani più visti anche all’estero: Le 120 Giornate di Sodoma di Giuliano Vasilicò. Il pubblico della prima era molto irriverente, dava pacche sul sedere agli attori scatenandosi in commenti salaci, tanto erano tutti amici. Vasilicò scompose il testo di De Sade sintetizzandolo in ventuno scene immerse in un buio totale solcato da fasci luminosi. Maria», ricorda Daniele come se fosse successo la sera prima, «rimase colpita dall’interazione tra i frammenti testuali, gli interventi musicali martellanti ed il ritmo impresso, tutto scandito sul vorticoso movimento dato ai carrelli che trasportavano gli attori. Una sinfonia di fantasmi lussuriosi che si materializzavano dal nero e giravano vertiginosamente alla luce, per poi ritornare ad essere ingoiati dalle tenebre. Una rappresentazione che indubbiamente colpiva per la centralità trionfale accordata al corpo dell’attore. Un corpo nudo, ovviamente, perché era uno dei più importanti elementi alla base del teatro sperimentale».
Con Daniele mia madre si vedevano quasi esclusivamente a teatro, almeno così ha detto. Lei sempre tra il pubblico, qualche volta con me in braccio, addormentata. Lui spesso sul palcoscenico. Nel 1973 debuttò nel Pirandello, chi? di Memè Perlini e si ricorda che mia madre gli ha regalato un enorme mazzo di margherite. «Hai letto i Sei personaggi?», mi ha chiesto. «Immagina di addormentarti e di sognarli. Questo era lo spettacolo. Dei Sei personaggi rimanevano brandelli. C’era una grossa invenzione visiva. C’era il personaggio-figlia sempre impegnato in esercizi fisici molto difficili e complicati, noi attori truccati vistosamente, suggestioni futuriste e surrealiste, con un sguardo privilegiato alle arti plastiche. Ricercare i Sei personaggi era veramente arduo… quello che bisognava fare era lasciarsi andare al flusso onirico che colpiva lo sguardo dello spettatore, e questo lo spettacolo riusciva perfettamente a permetterlo».
Daniele ha detto di averle fatto conoscere pure Mario Ricci. Io ho ammesso di non averlo mai sentito nominare e lui mi ha spiegato che in quegli anni era molto famoso perché strutturava il suo lavoro come un gioco: prendeva un testo, lo smontava, dopodiché poteva utilizzarne anche solo delle immagini. Mi ha fatto l'esempio di Moby Dick, che sembrava ambientato nell’antro delle streghe di un parco giostre, completamente realizzato con scenografie di cartone dipinto. "Nel finale", ha raccontato, "l’enorme bocca di Moby Dick ingoiava il capitano Achab, intento per buona parte del tempo della rappresentazione a giocare al solitario con dei grossi mazzi di carte, o a scrutare l’illusorio orizzonte con un cannocchiale. A Maria piaceva tantissimo perché analizzava, scomponeva e si irrobustiva con l’immissione di una visione personalissima del mondo. E anche se a volte le proposte vacillavano per mancanza di adeguati supporti teorici, c’era una grande forza scenica e visionaria che l’affascinava. Ricci divenne il suo autore teatrale preferito».
Io non ho voluto contraddirlo più di tanto, ma da quel che so io, mia madre eri "fissata" per il Living Theatre. Considerava Paradise, now!, che avevi visto con papà ad Avignone nel 1968, un percorso politico spirituale da seguire. Un percorso da compiere per tappe, sull'esempio dei rituali religiosi, dove la liberazione di tutti gli uomini, rappresenta l’ultimo atto, l’ultimo gradino di una scala simbolica verso la rivoluzione.
Daniele ha detto che lei non gliene ha mai parlato, spiegandomi che il posto più politicizzato che frequentavate insieme era Spazio Zero a Testaccio. Che era un costituito da un tendone da circo, senza riscaldamento e dove si moriva, letteralmente, di freddo. «Tua madre in questo spazio si sentiva a casa», ha sottolineato Daniele. Lui meno. E a un certo momento decise che era arrivato il momento di partire. Se ne andò per un po’ in Toscana, poi lasciò l’Italia. E l’addio a te è impresso nella sua memoria come se il tempo si fosse fermato.
«Ancora ho negli occhi le parole di quella sera», mi ha detto. «Di quando mi passò a prendere con la sua Renault4 rossa, sventolando quei due biglietti, mentre suonava il clacson con la sigaretta in bocca. Con i capelli ribelli e tutti quegli anelli alle mani che quasi le impedivano di prenderci per mano. Ancora me la ricordo. E nelle orecchie risento la colonna sonora di quella giornata. Che è iniziata con Touch me dei Doors ed è finita con il Testamento di Tito mentre riflettevo sull’ultima discussione che avevamo avuto. Tua madre mi passò a prendere a Pontedera, dove mi ero rifugiato nell’ultimo mese. Era marzo del 1973. La sera prima avevamo litigato al telefono. Continuavo a sostenere che eravamo diversi, perché io sono comunista. E lei anarchica. O meglio, io forse sono più anarchico di lei, sempre che ci siano dei gradi di anarchia, ma darle ragione quando mi diceva che lo siamo tutti mi dava fastidio. Per fare pace mi propose di andare al concerto di De Andrè».
A questo punto Daniele si è fermato. Forse non sapeva se era il caso di continuare. O forse voleva ricostruire i pensieri di quel giorno in maniera logica.
«Forse ero cinico, forse troppo. Ma l’amore rende cinici, è troppo grande per non esserlo, si rischia di morire dentro prima che fuori. L’anarchia è anche quella del non divenire, non divenire per essere sempre lo stesso, come fosse quella rivoluzione permanente che Bakunin predicava perché non cambiasse nulla nell’ordine, ma che dico ordine, del non governo di nessuno, perché l’animale che è in ogni uomo non arrivasse a voler comandare sugli altri. Fermarsi un gradino prima e festeggiare su quello scalino con una rivoluzione permanente. Aveva ragione, ma non glielo ho mai detto, perché davanti a lei dovevo sostenere che Lenin ha applicato il migliore dei mondi possibili e che gli anarchici sono solo degli schiavi dei pensieri e fanno poca azione perché è faticosa. Un po’ come la differenza fra i politici e i sindacalisti, i primi parlano, gli altri si sporcano le mani con gli operai. Eppure così io volevo vivere. In perenne rivoluzione con me stesso per non cambiare più. Mi piaceva essere così, ascoltare e non parlare, sperare ma non aspettare, cantare e non aprire bocca, amare e non dichiararlo. Pavido e sicuro al tempo stesso. Era la giusta strada per morire come Anna Karenina, sotto il treno della fatalità senza aver mai comprato un biglietto per partire».
«Quella mattina il mio umore era nero e mi sembrava che nulla potesse farmi uscire da quella spirale di pessimismo su ogni futuro pensabile. Ma era arrivata lei, con i due biglietti per l’Eden, o meglio per la migliore approssimazione del paradiso terrestre di quei due sfigati di Adamo ed Eva, traditi da un banale morso a una mela bacata. Stavamo per andare a sentire, vedere, godere e vivere Faber».
«Volevamo distruggere, ricostruire e curare il nostro nuovo mondo, ma non ci eravamo accorti che il mondo che volevamo costruire era quello che iniziava nella zona occipitale del nostro cervello e finiva sulle papille della lingua, proprio un attimo prima di dire qualsiasi cosa o tradurre un qualsivoglia idea. Era amore, semplicemente amore. Ora lo posso dire, senza rischio di sbagliare. Eravamo una sola idea e un solo inutile orgoglio di non voler ammettere che eravamo una sola cosa. Che stupidi. Ma forse è stato proprio quel volersi sentire diversi, anche dalla propria anima gemella, che ci ha reso unici, veramente unici ai propri occhi, orgogliosi di un’artefatta e presunta diversità».
«Siamo arrivati che tutti erano già lì, il biglietto non serviva perché nessuno l’ha controllato, tanti erano quelli che avendo vantato il diritto di poter ascoltare senza pagare, fugavano la necessità sovrastrutturale di brandire un pezzo di carta per vantare un diritto che era giustamente di tutti. Di quel concerto ricordo perfettamente la sua pelle, i suoi occhi e la sua commozione, intima, forte e sconcertante. Portava con sé un corpo che non aveva ancora trovato quel piccolo barlume finale che le avrebbe consentito di esplodere in un urlo. “Di respirare la stessa aria dei secondini non mi va, perciò ho deciso di rinunciare alla mia ora di libertà”, cantava lui dal palco e lei stringeva il pugno, quasi a lacerarsi le dita contro gli anelli. “se c’è qualcosa da spartire fra un prigioniero e il suo piantone, che non sia l’aria di quel cortile, voglio soltanto che sia prigione”, continuava lui e Maria quasi piangeva di rabbia. Forse perché sua sorella, tua zia, era stata beccata dalla polizia qualche giorno prima perché aveva un fucile dentro l’auto, e rischiava di finire in galera. La amavo più di quanto le parole avrebbero potuto descrivere e il mio cinismo era sommerso dalla bellezza indomabile di quel momento. Ero preda dell’amore e della voglia fisica di stringere quel corpo e farlo una cosa sola con il mio. “Quando in anticipo sul tuo stupore, verranno a chiederti del nostro amore. A quella gente consumata nel farsi dar retta, un amore così lungo, tu non darglielo in fretta”. De André continuava a cantare, non si rendeva conto cosa significava per me quella frase. Ero dilaniato dal dolore indotto da quel quadro che aveva creato Faber. Una tela di Fontana con un taglio netto e verticale, inesorabile e ineluttabile come la morte del mio cuore in quel momento. Fui costretto a pensare ad altro da un’improvvisa manifestazione degli operai della Piaggio. Che scandirono, con un certo disappunto generale, slogan contro i padroni e per la libertà dagli oppressori. Fabrizio non era in disaccordo e si era fermato, ma si leggeva nei suoi movimenti e nelle boccate di sigaretta un po’ più nervose, mentre era seduto sul suo piccolo sgabello con accanto un bicchiere di wisky, che l’arte e la poesia non dovevano essere profanate dalla lotta di classe. Forse perché, come me, pensava che la lotta dei deboli e degli oppressi già trasudava da ogni verso delle sue canzoni. Bastava ascoltare. Ma le parole di un altro non sono le proprie e il desiderio di espressione aveva tutto il diritto di essere ascoltato.
«“Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato le vostre 1100. Anche se voi vi credete assolti siete per sempre coinvolti”. A questi versi lei si mise a piangere. Sentiva il dolore e la rassegnazione generazionale di un esercito di incompresi. Io no, perché credevo, e credo ancora, che un esercito non può essere incompreso, ma solo pavido. Per me lottare era la prima cosa, per Maria il pensiero di perdere diventava un alibi per piangersi addosso e trovare una giustificazione alla compassione per gli altri e all’autocommiserazione di se stessi».
Daniele si è interrotto e mi ha guardato come se ci fossi stata Maria al mio posto. Con severità mista a quella tenerezza che forse non le ha mai dimostrato ha ripreso: «Questo ricordo. Questo voglio ricordare e non il fatto che abbiamo litigato in macchina anche dopo il concerto. Voleva fare l’amore, ma solamente per soddisfare l’istinto di dare un senso a quel sentirsi soli, con il bisogno di essere parte di un altro mondo, anche fisicamente. L’allontanai da me senza spiegarle il perché e lei lo prese come un rifiuto. Mi accusò di non volerle bene, mi disse che non le piacevo. Io non sono riuscito a spiaccicare una parola mentre avrei dovuto spiegarle che volevo proteggermi. E proteggerla. Nei giorni seguenti non ci siamo né sentiti né cercati. E me ne sono andato via, lontano».
Daniele mi ha raccontato che mise un po’ di roba nella sacca e se andò a Oslo. Voleva fare la sua esperienza all’Odin Teatret, il gruppo fondato nel 1964 dal regista italiano Eugenio Barba e dagli attori norvegesi Else Marie Laukvik e Torgeir Wethal. Voleva mettersi alla prova. Mi ha spiegato che il metodo di Barba prevedeva un intenso allenamento fisico, che doveva preparare alla recitazione, ma anche selezionare le persone più motivate e dotate di autodisciplina. L’allenamento o training era inteso non solo come mezzo per acquisire particolari abilità  tecniche, ma soprattutto come processo continuo di definizione della propria presenza scenica. Girovagò parecchi mesi prima di tornare a Roma.
Riitrovò mia madre alla Magliana. C’era un contro-festival e lei doveva scrivere un pezzo. Daniele conserva ancora nel portafoglio una fotocopia del ritaglio di giornale datato 22 giugno 1974. «La Magliana non è un quartiere, è una maledizione, scrivevamo più di un anno fa su Paese Sera. Ieri sera il contro-festival di piazza Vico Pisano ha ridato a quella «maledizione» una dimensione umana. II concerto, organizzato dal comitato di quartiere e da Stampa Alternativa ha assunto quasi subito la caratteristica della festa popolare. II confronto con Villa Borghese insomma non c’è stato. C’erano gruppi e cantanti che facevano la stessa musica, ma il pubblico, lo scenario, lo spirito era diverso. Piazza Vico Pisano è uno stretto corridoio fra due lunghe file di palazzi dormitorio soffocante, disumano. In questo scenario, che è la fotografia di una Roma sbagliata, c’era un piccolo palco su cui, davanti a un pubblico composto da giovani, donne, vecchi, lavoratori, e tanti bambini si sono susseguiti i «numeri» dello spettacolo. Il compito di aprire è toccato a Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Il primo venerdì aveva disertato il prato verde di villa Borghese, ieri ha spiegato che suonare alla Magliana, in un quartiere popolare, fra la gente che ogni giorno è costretta a combattere i mille problemi di un vero e proprio ghetto in cui imperversano la malaria e l’epatite ha ridato alla sua musica una dimensione non asettica, non neutrale. Il secondo che nell’intervento che ha preceduto il suo numero ha rivendicato quella libertà di artista che lo ha spinto a esibirsi anche a Villa Borghese, è stato applaudito freneticamente quando ha suonato uno dei suoi successi popolari, «Roma capoccia». Poi è toccato all’altro «pezzo forte», Alan Sorrenti, anche lui in polemica con la manifestazione «ufficiale». Il «clou» è stato però rappresentato dal «Trium Delirium», venti ragazzi francesi arrivati a bordo di tre pulmini con donne e bambini. «In Francia - hanno spiegato - viviamo tutti in una comune, qualcuno gira suonando, altri coltivano la terra». Da Roma andranno verso est per fare il giro del mondo. Alla manifestazione aveva aderito anche Edoardo Bennato. Il «contro-festival», che ha suscitato un dibattito molto serrato sulla musica fra gli stessi artisti che si sono esibiti, si è concluso a tarda notte. Fino alla fine piccoli e grandi hanno vissuto una serata nuova, diversa, che forse ha rappresentato una occasione unica per riportare la musica a contatto con i problemi reali di chi l’ascoltava»1.
Da quella sera hanno ricominciato a frequentarsi. Lui, mi ha detto, che l’aiutò a riprendersi dallo shock della strage di Brescia di piazza della Loggia del 28 maggio. Era in corso una manifestazione contro il terrorismo organizzata dai sindacati e da un comitato antifascista. Ci andarono molti suoi compagni e quello che le raccontarono fu un incubo. Quel giorno morirono otto persone. Altre 94 rimasero ferite.
Iniziò una storia. Una storia strana, che solo mia madre poteva voler vivere. Una storia di rinunce e di speranze, di tenerezza e di rabbia, di attesa e di attimi rubati. «La nostra non era una relazione fisica», ha ribadito Daniele mentre mi aiutava a sparecchiare. «Eravamo impegnatissimi, avevamo sempre tantissime cose da fare. Io a teatro, lei al giornale, con te, con Moira, le manifestazioni. E quando c’incontravamo parlavamo, discutevamo, litigavamo per poi starcene anche due o tre ore sdraiati sul divano in silenzio semplicemente a giocare l’uno con le mani dell’altro. E poi diceva di essere diventata allergica a qualsiasi tipo di rapporto sentimentale che potesse catalogare le persone in base allo stato sociale: coniugata, single, fidanzata. Io invece ero alla ricerca della donna della mia vita. Volevo mettere su famiglia, volevo un figlio. E così stavamo insieme senza legami».

 
Note:
1 Carlo Rivolta, Paese Sera, 23 giugno 1974

Capitolo 3

Daniele se né andato con l’aliscafo delle 6,30 diretto a Formia. Prima di imbarcarsi mi ha chiesto se intendevo battezzare mia figlia con il nome di Maria. Ci sto pensando, gli ho risposto abbracciandolo. Non appena salito a bordo me ne sono andata, senza aspettare che partisse. Non vedevo l’ora di tornare a casa per scoprire cosa conteneva quel prezioso pacchetto che mi ha lasciato.
In quella scatola impacchettata da Daniele c'erano i diari di mia madre. Mi sono messa a piangere mentre li sfogliavo, li accarezzavo e li stringevo sul mio cuore. Con la voce emozionata ho chiamato zia Carla. «Scusa per l’orario zia», ho esordito, «non ti preoccupare sto bene. È solo che tu e zia Moira dovete venire al più presto a Ventotene. È venuto a trovarmi Daniele Impellizzeri. E indovina un po’? Mi ha portato i diari di mamma. Voglio che li leggiate insieme a me». Zia era abbastanza stordita dal sonno, ma non c’è stato bisogno di aggiungere altro. «Arriviamo domani o dopodomani. Chiamo Moira e partiamo».
Dentro la scatola c’era un biglietto di Daniele. Mi chiedeva di leggere per prima cosa la pagina datata 28 aprile 1976. Non è stato difficile trovarla. Ci aveva messo un bel segnalibro di legno a forma di calla, il fiore che più le piaceva. Mi sono accoccata sulla sua poltrona, proprio davanti alla finestra dalla quale si può godere una splendida vista sul carcere di Santo Stefano illuminato dal sole di una limpida mattina di tramontana.
Voglio ricordare ogni istante di questa notte. La pressione del tuo pollice sulle labbra e la voglia della mia lingua di sentire il suo sapore. Di assaggiarti. Inizio dal polpastrello: sa di tabacco. E pure di burro, quello del cornetto che ci siamo appena divisi. Poi il dito. Il palmo della mano, il polso, il braccio tatuato, la scapola che ti provoca fastidio, il collo, il mento reso ispido da quella barba dietro la quale ti nascondi. Fino alle labbra. Le sfioro solamente e mi allontano. Ho paura che la realtà prenda il sopravvento e il mio sogno svanisca. Ma questa volta non è così. Sei tu ora a volermi assaggiare. La bocca è solo l’inizio. La sciarpa, la giacca, la maglia spariscono da dosso mentre continui a dirmi quanto sono bella. Affondi la testa tra i miei seni, baci i miei capezzoli, accarezzi la mia pancia, lecchi il mio piede. Mentre le mie mani si perdono tra i tuoi capelli, si deliziano a ripassare i lineamenti del tuo volto quasi a volerli imparare a memoria, toccano la tua schiena, i tuoi glutei. Tu ed io, poi, siamo stati un unico corpo, un’unica voce. Siamo diventati noi. Scaraventati dal desiderio, dalla passione, dal piacere, in un’altra dimensione, ci siamo sentiti finalmente liberi. Non esisteva più niente e nessuno. 28 aprile 1976
Neanche io? Neppure papà e le zie? Né la rivoluzione che sognava, né le compagne e i compagni? E le sue inchieste? Eppure io non me ne sono mai accorta. Se l’avessi saputo a quel tempo, l’avrei fatto sentire in colpa rimproverandola del poco tempo che passava con me. Le avrei detto che non era giusto, che non avevo scelto io di venire al mondo e che come madre avrei preferito la sorella. Avrei pianto e urlato per sentirmi dire che io ero l’unica cosa importante della sua vita, Anche se sapevo che mi amava più della tua stessa vita. Perchè in fondo lo sentivo, ma volevo punirla e provare quel sadico piacere nel vederla sconfitta, lei che affrontava senza paura le situazioni peggiori, lei che ha dimostrato sempre di essere forte e decisa, lei che sapevi sempre cosa fare. Oggi invece no, non ce l’ho con lei. Oggi riesco a comprenderla e persino a giustificarla.
Mi alzo e vado a prendere la sua foto che sta incorniciata in camera mia. È del 1976 e mi piace pensare che sia stata scattata proprio quel 28 aprile. È una foto che adoro, perché nella mia testa, mia madre sarà sempre così. Io avevo sei anni e lei era bellissima. Le bastava un po’ di mascara sulle ciglia per sentirsi a posto. I capelli arruffati odoravano di lei, come la sua pelle impregnata di quel profumo che andava a comprare a corso Rinascimento. Era diversa dalle mamme delle mie amiche e io ci soffriso: avrei voluto vederla su quei tacchi a spillo sui quali ancheggiavano le signore alle inaugurazioni in galleria da papà. Avrei voluto vederle le unghie laccate di rosso e pure le labbra disegnate da quella matita che mi aveva regalato per mascherarmi a carnevale. E invece no. Le uniche cose femminili che indossava le nascondevi, le calze autoreggenti sotto i pantaloni, i body di pizzo sotto le maglie nere. Sempre e solo nere.
Era affascinante anche se non se ne rendeva conto. Me lo ha detto pure Daniele. Anche lui non ha mai dimenticato quella sera. Non era riuscito mai a trovare le parole per descrivere ciò che successe il 28 aprile. Per questo ha usato le sue parole. Le parole che Maria ha scritto sul diario. «Dopo quel 28 aprile non esisteva più niente e nessuno», c’è scritto nel biglietto che ha lasciato nella scatola.
Non riesco a descrivere quello che provo con questi quaderni tra le mani. Continuo ad annusarli e mi sembra che abbiano ancora il suo profumo. Li sfoglio e oltre ai suoi scritti trovo articoli di giornale appiccicati e ripiegati su se stessi, e alcune foto che incollate sulle pagine del quadernetto rosso. Su una c’è papà, poco più che ventenne, con me piccolissima. Ha i capelli lunghi, lisci, e i baffi ben curati. La mano lunga e abbronzata sostiene la mia testolina, mentre il resto del corpo è appoggiato a cavalcioni sull’avambraccio. Credo sia stata scattata in galleria. Ci sono quadri accatastati ovunque e sullo sfondo si intravede un artista che sta dipingendo qualcosa sul muro. Settembre 1970, c’è scritto sotto. Io ho solo un mese.
Su un’altra pagina c’è la sua foto con Daniele. Lui, che è molto più magro di come è oggi, sta dietro e la tiene abbracciata per la vita. Mia madre davanti con le braccia larghe e la testa appoggiata al suo petto. Stanno in mezzo a tante altre persone, sembra un concerto, o una manifestazione. Se non fosse per i colori un po’ sbiaditi potrebbe sembrare una foto scattata oggi. Lui con una montagna di capelli castano scuro mossi, la barba folta, gli occhiali a goccia, una dolcevita rossa che si intravede da sotto l’eskimo. Lei con un vestitino nero, gli stivali senza calze, un trench avana, un paio di occhialoni neri tirati sopra i capelli arruffati. Mi fermo a guardare le sue mani. È vero sono piene di anelli grandi, bellissimi… Chissà che fine hanno fatto. Devo chiedere a zia Moira.
Eccola, c’è pure lei nel diario. Bella, appariscente, con due grosse tette che si è sempre ben guardata dal nascondere. La gonna a balze, i capelli lunghi neri, vistosi orecchini d’argento indiano, il cappotto di montone, la tolfa a tracolla. Il perfetto stereotipo di una fricchettona. Nella foto state facendo “naso naso”. E basterebbe questo attimo immortalato dal flash di qualche compagno per dimostrare quanto bene si sono volute quelle due.
Poi c’è zia Carla con me e nonna Anna. Abbiamo tutte e tre una ghirlanda di margherite in testa. Loro sono sedute in un campo di papaveri rossi mentre io cerco di arrampicarmi sulle spalle di zia. Nonna ride, mentre zia fa una smorfia di dolore. Che bella giornata. Bella come tutte quelle che passavamo insieme. In questa foto avrò avuto cinque, forse sei anni, era il compleanno di nonna e come sempre ci ritrovavamo nella casa in campagna per festeggiare. In quei giorni ognuno era obbligato a dimenticare i problemi, la politica, gli affanni per riscoprire l’importanza di una famiglia che nonostante tutto c’era sempre a sostenere, a coprire, a giustificare. Io non ho mai conosciuto nonno Luigi. Lui è morto quando mia madre era molto piccola e zia Carla appena nata. Ma so tutto di lui. Instancabilmente zia ha tenuto vivo il ricordo e la memoria di quel partigiano, suo padre, che partecipò alla battaglia di porta San Paolo del settembre 1943, ma venne ammazzato dai tedeschi prima della Liberazione, durante un’azione di sabotaggio notturno a un cantiere ferroviario sulla Cassia.

Capitolo 4

Bakunin si è preso la sua rivincita su Marx, ci siamo detti vedendo tutti quegli anarchici a Milano in via Preneste. Fa freddo e c’è molto traffico. È l’ultimo sabato prima di Natale. Ci sono tante bandiere nere con la A. Qualcuna rossa della Quarta Internazionale. A tenerle in mano soprattutto giovani, ma c’erano anche parecchi vecchi anarchici, con il cravattone nero, dietro alla moglie di Pinelli. La bara sta su un furgone. Ci sono qua e là dei fotografi appostati. La polizia ci ha bloccato a via Paravia, non voleva che il corteo funebre proseguisse fino al Musocco. Così al campo 76 del cimitero ci siamo andati dopo, al crepuscolo, giusto in tempo per vedere i becchini che calavano nella fossa, la numero 434, la cassa con Pinelli. Che stranamente aveva sopra una croce. Qualcuno prima aveva provveduto a coprirla con una bandiera, ma ora che la stavano mettendo sotto terra si è vista. Eravamo un centinaio e ci guardavano a distanza una ventina di guardie in borghese. Abbiamo alzato il pugno a salutarlo. Intanto arrivava altra gente. Un ragazzo con la barba corta ha detto: “Pinelli è stato assassinato. Addio Pino. Non dimenticheremo né te, né quelli che ti hanno ucciso”. Poi una voce roca ha attaccato Addio Lugano Bella e abbiamo iniziato a cantare. Ma a bassa voce, con il ritmo lento di una marcia funebre. E io sono scoppiata a piangere. Ho preso un sasso al cimitero, vicino alla fossa e l’ho stretto in mano fino a sentire dolore. Ma non è nulla in confronto a quello che sento nello stomaco.
L’hanno buttato dalla finestra. Pinelli è morto ammazzato. L’hanno ucciso dopo tre giorni di interrogatori. Le guardie l’hanno convinto ad andare in via Fatebenefratelli e poi lo hanno fatto fuori. Pino faceva il ferroviere ed è un anarchico, non ha nessuno che lo protegge e vogliono farlo passare per il responsabile della strage di piazza Fontana. Non è così. Sono in treno. Sto tornando da Luca. Oggi ho partecipato ai funerali di Pinelli ed ho provato tanta rabbia. Una rabbia che non sapevo di avere. Non so se la verità ufficiale coinciderà mai con la realtà, certo è che qualcuno dovrà pagare. E pagherà caro.
Tutto è iniziato il 12 dicembre 1969, alle ore 16.37 a Milano: un ordigno, composto da sette chili di tritolo, è esploso nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana. Il bilancio è stato di 16 morti e 88 feriti. A Roma qualche minuto dopo una bomba esplode in un corridoio sotterraneo della sede centrale della Banca Nazionale del Lavoro, tra via Veneto e via San Basilio: 13 impiegati sono rimasti feriti, uno in maniera grave. Il boato è stato fortissimo. Poi una nuova esplosione a distanza di mezz’ora. Un ordigno sulla terrazza dell’Altare della Patria, sul lato che si affaccia sui Fori Imperiali: nessuna vittima. Due minuti dopo un altro botto, un’altra bomba è esploso sempre sulla terrazza dell’Altare della Patria, dalla parte della scalinata dell’Ara Coeli: nessuna vittima. A Milano, quello stesso pomeriggio un impiegato della Banca Commerciale Italiana di piazza della Scala ha trovato una borsa nera e l'ha consegnata alla direzione. La borsa conteneva un’altra bomba che non è esplosa per un difetto di funzionamento del timer del congegno d’innesco. Ma gli artificieri hanno deciso di farla brillare distruggendo così eventuali indizi fondamentali. Devono trovare a tutti i costi un capro espiatorio: gli anarchici. Così vanno a bussare a casa di Pinelli. Non ci ha messo molto Calabresi a convincerlo a seguirlo in questura. Lui ci è andato perché non ha nulla da nascondere. Lo hanno interrogato per tre giorni. Poi è successo qualcosa. Il 15 dicembre Pinelli è precipitato dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi. La stessa fine di Andrea Salsedo, il tipografo sindacalista anarchico amico di Bartolomeo Vanzetti, che “volò” da una finestra al quattordicesimo piano del Dipartimento di Giustizia di New York dopo essere stato fermato e trattenuto due mesi perché sospettato di aver stampato opuscoli sovversivi. Pinelli ha fatto la stessa fine. Il questore Marcello Guida, nel 1942 uomo di fiducia di Mussolini e direttore del confino politico di Ventotene, già 20 minuti dopo, ha dichiarato che Pinelli si è suicidato e che il suicidio è stata una ammissione di colpevolezza perché “l’alibi era crollato”. Con Carla abbiamo partecipato alla conferenza stampa organizzata dagli anarchici milanesi al Circolo Ponte della Ghisolfa il giorno dopo la morte di Pinelli e l’arresto di un altro anarchico, Pietro Valpreda. Cazzate. 20 dicembre 1969

Capitolo 5

Inizia così il diario di mia madre. Sulla copertina c’è scritto "A come amore" e la A è quella cerchiata dell’anarchia. Mi faccio due conti e capisco che quel giorno c’ero anche io con lei al funerale di Pinelli. Non lo sapeva ancora, ma era incinta. Da quel giorno la vita non fu la stessa. Né la sua, né quella di tantissime altre persone. E neppure quella di zia Carla che studiava Sociologia a Trento ma stava con noi a Milano quel giorno. Quel giorno che segnò l’inizio di un’epoca buia che ancora oggi non sembra essere del tutto terminata. Da quel 12 dicembre 1969 l’Italia fu scossa da nove stragi, tre tentativi di golpe scoperti, la cospirazione della politica (la Piddue), quindici anni di omicidi politici firmati da rossi e neri, l’abbattimento di un aereo di linea senza motivo, un’escalation di delitti mafiosi.
Zia era arrivata a Milano direttamente da Trento. All’università militava nel movimento studentesco di Renato Curcio, Mauro Rostagno e Marco Boato. Entrò in Lotta Continua: prima gli avversari erano il professore, il caposquadra, il padrone da allora il nemico divenne lo Stato.
Di queste cose ne abbiamo sempre parlato molto con lei. Ci ho vissuto insieme per tanto tempo e certi argomenti spuntavano fuori ogni qual volta si parlava di politica, ogni qual volta dovevo andare alle manifestazioni. Ma erano discorsi astratti. Adesso sento il bisogno di approfondirli perché hanno segnato la vita di mia madre. Perché forse, come sostiene Daniele, se Pinelli non fosse stato ucciso lei non si sarebbe lasciata coinvolgere così tanto dalla politica. Forse avrebbe evitato di fare domande, di andare a curiosare su cose che ancora oggi restano avvolte nel mistero. Quel che è certo è che dopo quel 15 dicembre del 1969 ha cambiato modo di vivere e di essere parte della società.
Fino ad allora, scrive nel diario, «Non ho mai frequentato da militante sezioni di partito, e neppure circoli libertari. Dopo la morte di Pinelli sono andata a bussare alla porta dello scantinato di via Vettor Fausto dove Aldo e Anna, subito dopo la Liberazione, avevano aperto la sede del Gruppo anarchico Cafiero, già aderente ai Gruppi di Iniziativa Anarchica. Sulle pareti, in bella grafia, qualcuno aveva affrescato motti del tipo: «Il Vaticano è come un pugnale nel cuore d’Italia», «Anarchico è il pensiero e verso l’anarchia va la storia», «Il denaro, ecco il nemico, pervertitore di ogni sentimento retto». Il più ardito che s’è conservato: «Solcati ancor dal fulmine eppur l’avvenir siam noi!». Dentro la vetrina, ben ordinate, le collezioni di «Umanità Nova», dell’«Adunata dei Refrattari», dell’«Internazionale», di «Volontà», e poi i libri in vendita: Gori, Fabbri, Malatesta. Sul tavolo, la macchina da scrivere, una Olivetti a carrello lungo che Adriano Olivetti regalò alla redazione di Umanità nova e che, dopo la scissione del 1965, finì lì. E ancora la biblioteca, con un migliaio di libri, aste e bandiere, quelle con la fiaccola, e i manifesti per le vittime politiche. Al Cafiero ho conosciuto Andrea che si dice abbia frequentato Malatesta; Perugia che ha scontato una lunga pena per «delitto d’onore», Italo che era stato confinato a Ventotene per undici anni. Nessuno ha meno di settant’anni. Ci parlano di Sacco e Vanzetti, dei martiri di Chicago. Ci consegnano una storia di sterminio fatta di sedie elettriche, vili garrote, carcere, esilio, povertà».
Al Cafiero, così dice nel diario, hai conosciuto anche Franco, un toscano che studiava a Roma. A lui che la interrogava sull’anarchia ha dedicato una pagina. Oggi Fra mi ha chiesto perché non voglio iscrivermi a nessun circolo libertario, né alcun gruppo pur sostenendo di essere un’anarchica. Ho cercato di spiegargli che per me essere un’anarchica non è un marchio di fabbrica. È un sentimento, una condotta di vita. Del resto ho scoperto di essere un’anarchica solo dopo aver letto “Il buon senso della rivoluzione” di Malatesta e “Il miglior governo è quello che non governa affatto”, di Henry Thoureau. E la conferma mi è arrivata da Bakunin, da Protpokin, da Stirnern, da Cafiero, da Emma Gooldman. Ho ritrovato in quegli scritti le mie piccole battaglie contro l’ingiustizia, per l’egualitarismo e la libertà. Purtroppo la maggior parte di queste lotte si sono concluse con la sconfitta. E questo mi tormenta. Spero almeno che nel campo dove ho seminato il seme della solidarietà, del rispetto degli ultimi, dell’amore senza interessi, cresca forte un nuovo sentimento anarchico. Voglio illudermi che quel sentimento generi un rivoluzionario che si impegnerà, attraverso l’esempio, a fare proseliti. E così via. Perché tutti possono contribuire alla diffusione dell’Anarchia dimostrando che si può vivere in una società dove si aiuta e si viene aiutati, dove si ama e si è amati con la stessa intensità e senza chiederlo, dove tutti sono rispettati per quello che sono. Consapevoli di essere parte di un’umanità soggiogata ma non doma, forte solo della propria dignità e coerenza. È possibile! Si può fare».
Malatesta, Stirner, Bakunin, Kropotkin, Goldman. Mia madre aveva letto quasi tutti i loro saggi sull’anarchia e amava citarli. Questo me lo ricordo, anche se ero piccola. E da grande rileggere quei libri mi ha fatto sempre sentire meno sola. Quando voglio sapere come la pensa lei su qualcosa vado a cercare lì. Parlava a ruota libera della polemica tra comunisti autoritari e libertari, dello scontro tra Marx e Bakunin, delle persecuzioni dei bolscevichi in Russia dopo il 1917. Racconti che alternava alle storie di anarchici che avevano pagato con la morte. Mi narrava, quasi si trattasse di una fiaba, di Gino Lucetti che voleva ammazzare Mussolini, del cuoco Giuseppe Passannante che cercò di uccidere Umberto I e che fu chiuso in una cella sotto il livello del mare nella fortezza di Portoferraio. E poi di Romeo Frezzi che venne arrestato perché ritenuto complice di un altro attentatore di Umberto I, Pietro Acciarito, e morì in galera in circostanze misteriose. Le guardie dissero che si era suicidato, invece un medico, il dottor Pardo, accertò che Frezzi venne ucciso. Ma soprattutto parlava di Gaetano Bresci che ammazzò il re e che venne ucciso nel carcere di Santo Stefano. Ogni volta che andavamo a Ventotene ci facevamo portare dai pescatori all’isola per andare a mettere i fiori sulla sua tomba. In realtà nessuno sa in quale di quelle fosse sono state messe le ossa dell’anarchico. Ma noi avevamo deciso che il sepolcro di Bresci non poteva che essere quell’unico mucchio di terra che d’estate e d’inverno era ricoperto di capelvenere sul quale era stata piantata la più sgangherata delle croci.
Quando parlava degli anarchici li definiva come dei miserabili che aiutavano chi era più miserabile di loro. Questo voleva essere lei. Lei che eri contro ogni tipo di violenza.
Quando a casa si discuteva sugli attentati, sugli omicidi che in quegli anni riempivano le pagine dei giornali lei prendeva le distanze recitando a memoria il credo di Malatesta: «L’idea centrale dell’anarchismo è l’eliminazione della violenza dalla vita sociale: è l’organizzazione dei rapporti sociali fondati sulla libera volontà dei singoli, senza l’intervento del gendarme. Perciò siamo nemici del capitalismo che appoggiandosi sulla protezione dei gendarmi costringe i lavoratori a lasciarsi sfruttare dai possessori dei mezzi di produzione o anche a restare oziosi e a patire la fame quando i padroni hanno interesse a sfruttarli. Perciò siamo nemici dello Stato che è l’organizzazione coercitiva, cioè violenta, della società. La violenza è giustificabile solo quando è necessaria per difendere se stesso e gli altri contro la violenza. Dove cessa la necessità comincia il delitto».
Era anarchica mia madre, ma non nell’accezione che la maggior parte delle persone dà a questo termine. Da quello che mi ricordo io, ma soprattutto da quello che mi hanno raccontato papà, zia Carla, zia Moira e ora Daniele, non amava l’ordine costituito e le interessava il punto di vista di ogni singola persona. Soprattutto dei border line. C’era di sicuro in lei una visione romantica dell’anarchia, identificata con l’emarginazione come un’esclusione totale, assoluta dalla società, dalle convenzioni dominanti. Non era mai stata interessata a far parte di questo o quel movimento pur condividendone gli obiettivi, perchè era attratta dall’individuo, da quelle donne e uomini apparentemente senza tempo, che restavano ai margini. Le uniche persone che secondo lei conservavano la purezza originaria. E anche lei volevi vivere ai margini. «Aveva una forte propensione ad auto-escludersi», mi ha sempre detto zia. «Non credo si sia mai sentita completamente a suo agio nel movimento. Nelle nostre battaglie lei c’era sempre, ma non faceva parte del gruppo. Il suo essere anarchica e per giunta individualista si prestava benissimo anche a non rompere con nessuna delle componenti della propria esistenza».

Capitolo 6

Maria seguiva con la massima attenzione l’inchiesta che Camilla Cederna pubblicava passo dopo passo su L’Espresso. Si vede dagli appunti che ha preso su questo quaderno1. Così come, giorno dopo giorno, la battaglia portata avanti da Lotta Continua sul giornale per far luce sull’assassino di Pinelli. Battaglia che iniziò il giorno stesso del suo funerale. Lo dimostra la raccolta che conservava gelosamente e che sono stati riposti nella soffitta della casa di Ventotene dopo la sua morte. Ho trovato il numero del 20 dicembre 1969. In prima pagina c’è la foto del cortile della Questura con una freccia bianca che indica la finestra da dove è caduto Pinelli. È quella del commissario di polizia, Luigi Calabresi, che nella Questura di Milano si occupava appunto di anarchici e che aveva condotto l’interrogatorio del ferroviere. In terza pagina c’è una foto di gruppo dei dirigenti della questura. Calabresi è l’ultimo a destra, l’unico senza cravatta, ma non compare il suo nome. Solo sul giornale del 7 marzo1970, Lotta Continua, fece il suo nome, peraltro sbagliandolo: «è il dott. Calabrese».

Da quel numero il giornale iniziò una dura campagna contro di lui. Con vignette che, ad esempio, lo ritraggono in fasce mentre scaraventa fuori dal box orsacchiotti di peluche, oppure vestito da scolaro che butta di sotto i compagni di classe, o ancora vestito da cameriere davanti a una finestra che dice a Pinelli: o ti mangi questa minestra…. Ma soprattutto con articoli nei quali si legge: «Calabresi, sei tu l’accusato. […] Le nostre armi sono altre, più difficili, faticose, pericolose, ma infinitamente più efficaci. È l’organizzazione della forza e dell’autonomia del proletariato che farà giustizia di tutti i suoi nemici. Dell’assassinio di Pinelli abbiamo detto a chiare lettere che il proletariato sa chi sono i responsabili e saprà fare vendetta della sua morte» (14-5-1970).

«Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, ed è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito. […] Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, più modestamente, di questi nemici del popolo vogliamo la morte» (6-6-1970).

Mentre leggo mi rendo conto che questo tipo di articoli oggi non sarebbero mai usciti e che forse nessun giornalista avrebbe mai avuto il coraggio di pubblicarli.

«Siamo stati troppo teneri con il commissario di pubblica sicurezza Luigi Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente. […] Il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i militanti che hanno imparato a odiarlo; la sua funzione di sicario è stata denunciata alle masse che hanno incominciato a conoscere i propri nemici di persona, con nome, cognome e indirizzo. È chiaro a tutti, infatti, che sarà Calabresi a dover rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara. […] Il terreno, la sede, gli strumenti della giustizia borghese sono del tutto estranei alle nostre esperienze, alle nostre lotte, alle nostre idee, e non è certamente dalla legge dello Stato capitalista che ci attendiamo la punizione di un suo servo zelante; non dai giudici “progressisti e onesti”; non da un dibattimento i cui codici, norme e regole, creati dalla borghesia per controllare gli sfruttati, non possono essere utilizzati dai proletari, ma solo da questi distrutti. […] Ma dentro il tribunale, nelle strade e nelle piazze, il proletariato emetterà il suo verdetto, lo comunicherà e ancora là, nelle piazze e nelle strade, lo renderà esecutivo. Calabresi ha paura ed esistono validi motivi perché ne abbia sempre di più. […] L’imputato e vittima del secondo [processo] è già da tempo designato: un commissario aggiunto di ps, torturatore e assassino: Luigi Calabresi. Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati; ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato assassino» (6-6-1970). «Calabresi, assassino, stia attento. Il suo nome è uno dei primi della lista» (6-5-1971).

Tutte frasi che mia madre ha puntualmente annotato nel suo diario. Senza alcun commento. Come se avesse voluto fissarle nella testa. Non so se le condivideva o meno. Certo è che anche lei era convinta che Pinelli fosse stato ucciso.

Sono passati 3 mesi dalla morte di Pinelli e sono riusciti a dare tre versioni contrastanti della sua fine. Ho parlato con alcuni anarchici di Milano. Tutti accusano la polizia di assassinio e i fascisti e lo stato di essere gli autori delle stragi. Anche io non ho dubbi. Si è scoperto che a mezzanotte meno due secondi (2 minuti e 2 secondi prima della caduta di Pinelli) venne chiamata l’autoambulanza. La stanza dell’interrogatorio larga 3,56 metri x 4,40 e contenenti vari armadi e scrivania e la presenza di 6 persone rende impossibile uno scatto di Pinelli verso la finestra. E poi non è strano che la finestra fosse aperta trattandosi di dicembre e di notte? Pinelli cade scivolando lungo i cornicioni. Non si è dato quindi nessuno slancio. Cade senza un grido e senza portare le mani a protezione della testa, come se fosse già inanimato. Ma perché continuano a raccontare tutte queste bugie? E comunque le guardie avevano il dovere di salvaguardare la vita di Pino. Si trattava di un cittadino affidato alla loro custodia e soprattutto, secondo loro, di una preziosa fonte. Almeno di questo dovranno rispondere. E poi, perché lo trattennero per tre giorni quando lo stesso Calabresi ha ammesso in una intervista su l’Unità che contro Pinelli non avevano nulla? Un funzionario della Polizia, la mattina del 15 dicembre, aveva detto alla madre che non era collegato alla strage, ma che comunque c’erano state pressioni da Roma per il suo fermo. E che cosa c’era di tanto interessante nel libretto chilometrico di Pinelli, ovvero il tesserino in cui segnava i suoi viaggi, che fu mandato a prendere a casa del ferroviere alle undici di sera del 15 dicembre? 19 marzo 1970

Non mi ero mai interessata più di tanto a questa storia. La conosco certo, ma sapere come l’hai vissuta mia madre è un tassello che mi sembra fondamentale per sapere veramente chi era lei. Qualche pagina più avanti trovo scritto:

Il commissario Calabresi ha querelato Pio Baldelli, direttore responsabile del settimanale Lotta Continua per diffamazione continuata e aggravata circa la defenestrazione di Pinelli. Oggi Calabresi ha deposto in tribunale mentre la gente urlava assassino, buffone, buttati dalla finestra. Il vicequestore Vittoria ha autorizzato una carica nei corridoi di Palazzo di giustizia. I compagni hanno organizzato un sit in al primo piano. 14 ottobre 1971.

Anche se risulta che il vicecommissario non fosse nel suo ufficio nel momento del volo di Pinelli, per Lotta Continua, credo che anche per mia madre quello di Calabresi è «il primo volto dei burattinai della strategia della tensione a cui sia stata strappata la maschera»2.

Mi hanno detto che Pinelli con involontaria vena profetica, predispose che, alla sua morte, venissero incisi sulla lapide i versi di una stupenda poesia tratta da Spoon River di Edgar Lee Masters, che parla dell’uccisione l’11 dicembre 1887, dei cinque anarchici anarchici ingiustamente accusati dell’eccidio di Haymarket Square (a Chicago) il 4 maggio 1886. Il 3 maggio, di fronte alla fabbrica di mietitrici McCormick, la polizia sparò sugli scioperanti uccidendone due e ferendone molti. Fu quindi indetta una manifestazione ad Haymarket Square il giorno dopo. Tutto sembrava più che tranquillo, quando la polizia intimò di sgombrare e iniziò a marciare a ranghi serrati per attuare l’ordine. Partì un ordigno che uccise 11 persone più un poliziotto; altri sette, rimasti feriti, morirono nei giorni successivi. Da qui l’indegno e puramente persecutorio processo agli organizzatori della manifestazione. La poesia scelta va dedicata a Pinelli e a tutti quelli che combattono i potenti, gli oppressori, i “grandi personaggi” (politici, militari, della stampa e dello spettacolo, finanzieri, ecc..). Questi versi non possono non commuovere chi resta al di qua della linea di demarcazione tra senso di umanità e il più sconfinato e arido deserto dei sentimenti. giugno 1970

Epitaffio di Carl Hamblin

La macchina del “Clarion” di Spoon River venne distrutta,

e io incatramato e impiumato,

per aver pubblicato questo, il giorno che gli anarchici furono impiccati a Chicago:

Io vidi una donna bellissima, con gli occhi bendati

ritta sui gradini di un tempio marmoreo.

Una gran folla le passava dinanzi,

alzando al suo volto il volto implorante.

Nella sinistra impugnava una spada.

Brandiva questa spada,

colpendo ora un bimbo, ora un operaio,

ora una donna che tentava ritrarsi, ora un folle.

Nella destra teneva una bilancia;

nella bilancia venivano gettate monete d’oro

da coloro che schivavano i colpi di spada.

Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto:

Non guarda in faccia a nessuno’.

Poi un giovane col berretto rosso

balzò al suo fianco e le strappò la benda.

Ed ecco, le ciglia eran tutte corrose

sulle palpebre marce;

le pupille bruciate da un muco latteo;

la follia di un’anima morente

le era scritta sul volto.

Ma la folla non vide perché portava la benda”.

L’Antologia di Spoon River è stato uno dei libri della mia infanzia, dell’adolescenza e tutt’ora quando lo rileggo trovo degli spunti inediti, delle riflessioni legate all’attualità, agli stati d’animo che provo in quel preciso momento. È una raccolta di poesie che l’americano Edgar Lee Masters pubblicò tra il 1914 e il 1915 sul “Mirror” di St. Louis. Ogni poesia racconta, in forma di epitaffio, la vita di una delle persone sepolte nel cimitero di un piccolo paesino della provincia americana. E mia madre usava quelle poesie per inventare delle storie che io dovevo tradurre in disegni. Da qualche parte deve esserci ancora l’album con scritto in copertina “Sole: illustrazioni all’antologia di Spoon River”. E poi ascoltavamo insieme l’album “Non al denaro non all’amore né al cielo” con le canzoni di Fabrizio De Andrè ispirate agli epitaffi di Frank Drummer, un matto; quello di Judge Selah Lively, un giudice; Wendell P. Bloyd, un blasfemo; Francis Turner, un malato di cuore; Dr. Siegfried Iseman, un medico; Trainor, the druggist, un chimico; Dippold, the optician, un ottico; Fiddler Jones, il suonatore Jones. Mi è venuta voglia di riascoltarlo. Non è stato facile ritrovare l’ellepi in mezzo a tutto il casino che ho accumulato negli anni nella soffitta, ma alla fine ce l’ho fatta. L’ho messo sul vecchio giradischi e la casa si è riempita nuovamente di lei.



Note:

1 Articoli che poi diedero vita al suo libro Pinelli, una finestra sulla strage. Un libro nel quale c’è tutta l’opera di depistaggio intorno alla morte di Pinelli, le macchinazioni del Pm Caizzi e del giudice Amati per archiviare il caso, le false, incongruenti, contraddittorie testimonianze del questore Guida, del brigadiere Panessa, del commissario Calabresi e poi il processo Calabresi-Lc, la magistratura servile alla ragion di Stato.



2 Il giornale, appoggiato da quarantaquattro redazioni di riviste politiche e culturali che sottoscrivono un documento di solidarietà, ha raggiunto così il suo obiettivo: quello di tornare a parlare di Pinelli dopo che l’istruttoria sulla sua morte è stata archiviata)