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Capitolo 20

Lo lascio solo e vado a controllare se c’è qualche messaggio nella posta elettronica. Niente. Mi sto spazientendo. Possibile che Ciccio non abbia trovato ancora cinque minuti per scrivermi? Lo cerco in redazione, ma non c’è. Chiedo alla centralinista se può avvertirlo della mia telefonata. Poi però chiamo Daniele. «Mi hai detto che mi avrebbe aiutata e invece si sta facendo negare», esordisco io. «Sono sicuro che non è così», risponde. «Comunque, ora provo a cercarlo anche io. Vedrai che si farà vivo al più presto».
Così è stato. Ciccio ha preso l’aliscafo delle 17,30 ed è arrivato a Ventotene senza neanche avvertirmi. Sono stata presa dal panico quando l’ho visto in giardino. Prima ho pensato che fosse un’allucinazione, poi ho pensato a papà, al suo segreto e alle cose che ancora doveva rivelarmi. «Papà, abbiamo ospiti», urlo precipitandomi fuori.
«Ti trovo bene, Sole», dice per rompere il ghiaccio. Intanto anche papà esce in giardino per vedere chi è arrivato. «Ciao Ciccio», gli dico abbracciandolo. «Potevi dirmelo, saremmo venuti a prenderti», mento. Quello che non posso dirgli è che non era proprio il momento di piombare in casa mia. Dovevo prima chiarire con mio padre tutta una serie di cose. C’era tensione tra noi e non volevo che lui la percepisse. «L’ho deciso all’ultimo momento e poi sapevo dove trovarti».
Già. Lui lo sa. Lui è venuto spesso qui con mamma e con noi. Ciccio abbraccia anche papà, che non sembra affatto preoccupato. Anzi. Pare felice di quella visita inattesa. Forse pensa che io non continuerò a torturarlo con il mio terzo grado e sposterò le mie attenzioni sull’amico di mamma.
«Vieni, entra. A cosa dobbiamo questa visita?». Che falsa che sono, mi dico mentre mi escono di bocca quelle parole. Non voglio che papà sappia che l’ho cercato io. Ciccio capisce al volo. «Daniele mi ha detto che ti ha portato i diari e che volevi farmi delle domande.  Sai per telefono è difficile rispondere, avevo due giorni liberi e sono venuto».
Sono in imbarazzo e si vede. «Ci prepari una bella cenetta?», dico a papà spingendolo in cucina. «Vediamo cosa c’è in frigo». Una volta soli gli prometto che non farò nessun accenno a quanto mi ha rivelato. «Lo so principessa», dice sorridendomi. Torno da Ciccio che se ne sta ancora in piedi con la ventiquattrore in mano. «Siediti, ti prego», gli faccio indicando il divano rivestito con una coperta messicana. «Ho letto i diari. Visto che sei qui puoi aiutarmi a capire». Non c’è motivo per rimandare e vado diritta al sodo, senza preamboli, mentre mi accomodo nella poltrona di mamma.
«Che ricerca stava facendo mia madre?».
«Tua madre era letteralmente ossessionata dalla ricerca della verità su piazza Fontana e sull’assassinio, perché lo considerava tale, dell’anarchico Pinelli. Quando ha accettato di insegnarmi il mestiere, è stato anche perché potevo aiutarla. Ci siamo conosciuti poco tempo dopo l’omicidio del commissario Calabresi. Era infuriata perché pensava che senza di lui non si sarebbe più potuto sapere nulla, che il processo sarebbe stato chiuso e la verità non sarebbe più venuta fuori. Per questo era convinta che non potevano esseri stati i compagni ad aver commesso l’omicidio. I compagni volevano sapere. Mi disse che dovevamo cercare altrove. Magari negli ambienti di destra».
«Come è andata a finire?», chiedo mentre vado in cucina a prendermi un bicchiere di acqua fresca. Ho la bocca secca. Papà sta pulendo alcune seppie che mi ha portato Aniello stamattina.  Gli do un bacio e torno da Ciccio. 
«Alla fine, dopo tante controinchieste che sono state ciclostilate e distribuite all’università, davanti alle fabbriche, alle manifestazioni dai compagni, ci siamo ritrovati a cercare il memoriale di Aldo Moro», mi dice appena rientro nella stanza mostrandomi un foglietto con su scritto: «Dobbiamo parlare da soli». Ho capito. Devo inventarmi qualcosa. Ma è difficile: ho la testa che mi gira e un nodo alla gola.
«Senti Sole, ne parliamo più tardi. Ora vorrei andare a comprare un dolce per la cena. Mi accompagni al forno?». Meno male che qualcosa se l’è inventata lui.
«Va bene, ho aspettato tanto, posso aspettare ancora un po’», dico ad alta voce per farmi sentire da papà. Torno in cucina e gli dico che vado da Tonino insieme a Ciccio. I suoi occhi sono gelidi, tali e quali a quando mi pizzicava a fare qualcosa che non dovevo fare.
«Scusami, non volevo metterti in imbarazzo», dice Ciccio una volta fuori dal cancello del giardino. «Non sapevo che c’era tuo padre con te, altrimenti avrei rimandato la visita».
«Non ti preoccupare. Ma cosa c’è di tanto imbarazzante da non poter far sentire a papà?».
«Lo vuoi sapere davvero?».
«Sì. Assolutamente sì».
Davanti a noi c’è la spiaggia di Cala Rossano deserta e in ombra. Tre barchette dondolano ancorate su questo specchio di mare riparato. Ci mettiamo seduti sul muretto. E Ciccio inizia a vuotare il sacco.
«Qualcuno ha suggerito a Maria di cercare un certo Igor».
«Sì, lo so. L’ha scritto anche sul diario.  Dice che stava cercando un uomo che aveva a che fare con la Resistenza e che a Ventotene poteva trovare qualche indizio in più. Immagino che mia madre sia venuta qui e abbia trovato le risposte che cercava. Vero?».
Ciccio annuisce.
«Perché non le ha scritte sul diario? Te ne ha parlato?».
«Le ha scritte sul diario. Ma qualcuno ha strappato quelle pagine».
«Ma che stai dicendo? Che interesse aveva Daniele a cancellare delle prove che oggi mi chiede di cercare?».
«Non le ha strappate Daniele. È successo prima che tua madre portasse a casa sua i diari. Li ha lasciati lì per questo».
«Qualcuno di famiglia», dico io senza pensarci un attimo.
«O forse qualcuno che poteva entrare in casa vostra».
«Chi Ciccio? Ti prego non tenermi sulle spine. Devo sapere».
Tira fuori dalla tasca della giacca un sacchetto di tabacco, le cartine e i filtri. Si prepara in silenzio una sigaretta. La accende, si riempie la bocca di fumo poi lo ingoia assaporandolo. Solo a questo punto riprende a parlare.
«Tua madre sospettava che tuo padre fosse entrato nelle Br. A un certo punto i sospetti sembravano trovare riscontri sempre più attendibili. Finché un giorno Maria mi venne a dire che era sicura che anche suo marito, Luca, era coinvolto in questa storia».
«Quindi è stato papà a far sparire quella pagina», chiedo io senza dare nessuna importanza alla notizia che mi ha appena dato: mio padre era un terrorista. Ciccio non sembra farci caso e risponde: «Non lo so, ma Maria era sicura che a strappare le pagine del suo diario fosse stata Rita, me l’ha detto il giorno prima dell’incidente. Qualche sera prima, l’amica di tuo padre bussò a casa vostra dicendosi preoccupata per Luca. Voleva sapere se lei ne aveva notizie, visto che era scomparso da oltre una settimana. Ebbe uno svenimento e tua madre la convinse a fermarsi da voi per la notte. Secondo tua madre in quell’occasione Rita ebbe modo di mettere il naso nelle sue cose. O forse l’intenzione era questa, ma tuo padre aveva fatte sparire quelle pagine del diario prima con l’intenzione di togliere tua madre dai guai».
«Non ho capito cosa c’entra Rita in tutta questa storia. Ma non stavate cercando Igor?».
«Noi stavamo cercando il memoriale e tua madre l’aveva trovato. Almeno una parte».
«Scusa Ciccio, ma non riesco proprio a starti dietro».
«Tua madre si era convinta che anche Rita fosse coinvolta nell’organizzazione e che lei sapesse dove erano i documenti di Moro. Dopo la morte di Maria ho continuato a cercare informazioni sulla attuale moglie di Luca. Nulla. Nessuno ha mai fatto il suo nome. Così come quello di tuo padre. Deve esserci un perché. Per ora tutto questo io lo posso solo ipotizzare, perché non ho uno straccio di prova. Ma ti assicuro che è così. Ne ho parlato con Daniele e lui nella mia ricostruzione dei fatti ha trovato conferma di tanti suoi dubbi. Anche tu dovevi venirne a conoscenza. E così si è inventato il regalo dei diari».
«Ha ragione zia Moira, è un subdolo. Non è stato capace di dirmi i suoi sospetti su mio padre guardandomi negli occhi», dico riferendomi a Daniele. Poi torno lucida su quello che mi sta rivelando Ciccio.
«E la morte di mia madre c’entra qualcosa con tutto questo?», chiedo non sapendo in quale risposta sperare.
«Se vuoi sapere se c’entra tuo padre, ti dico di no. Se vuoi sapere se c’entra Rita, non posso dimostrarlo, ma la sua figura è inquietante. E poi lo sai meglio di me. Frequentava la galleria di Luca, mi sembra che facesse la critica d’arte, organizzasse mostre, cercasse nuovi artisti. Ma della sua vita precedente nessuno sapeva niente. Non credo di aver mai sentito parlare di una famiglia, poi all’improvviso, da un giorno all’altro ereditò una bella villa nei dintorni di Firenze».
«Riguardo alla morte di tua madre», continua Ciccio lanciando con rabbia un sasso verso il mare, «ho iniziato a insospettirmi che si trattasse di un incidente provocato appena mi sono reso conto che la dinamica era identica a quella di un incidente capitato a cinque ragazzi anarchici di Reggio Calabria». Si ferma e mi guarda negli occhi prima di ricominciare a raccontare: «La notte tra il 26 e il 27 settembre 1970, alle 23,30 circa, al chilometro 58 dell’A2 tra Ferentino e Anagni, la Mini Morris gialla guidata da Gianni Aricò si tamponò violentemente un autocarro. Morirono sul colpo Angelo Casile, Franco Scordo e Luigi Lo Celso. Aricò venne trasportato all’ospedale civile di Frosinone insieme alla moglie Annelise Borth, in stato interessante. Aricò morì appena arrivato in ospedale, la sua compagna resisterà per 21 giorni in coma cerebrale. I cinque ragazzi andavano a Roma a consegnare un rapporto che la federazione anarchica gli aveva chiesto di fare sui fascisti reggini. Avevano scattato foto per mesi durante la rivolta di Reggio Calabria per testimoniare la presenza di fascisti greci. In tasca di Angelo Casile c'era ancora il biglietto con il numero di telefono dell'avvocato Eduardo Di Giovanni di Soccorso Rosso. Di quello che trasportavano non è mai stata trovata traccia. Nei rapporti su ciò che la polizia avrebbe trovato sui resti della Mini Minor si parla invece di due radio ricetrasmittenti che nessuno è mai più riuscito a rintracciare. Il 6 settembre, tre settimane prima dell’incidente, Aricò aveva telefonato a Roma per comunicare agli anarchici della federazione che la controinchiesta stava procedendo bene, e che una parte del materiale era stata spedita al compagno Veraldo Rossi, ma lui non ricevette mai il plico. Quei ragazzi erano a Roma il 12 dicembre 1969. E furono arrestati insieme a tutti gli altri anarchici del circolo di Valpreda con l’accusa di aver messo le bombe all'altare della patria. Rimasero in prigione una settimana e quando tornarono a casa erano cambiati. Dopo il 12 dicembre avevano visto con i loro occhi che contro di loro non c'erano solo i fascisti reggini, ma anche la polizia e i giudici. Hanno paura quando esplodono i moti di Reggio e scoppiano le bombe sui treni. Il 26 agosto, un mese esatto prima di morire, Angelo Casile si presenta dal giudice Cudillo e chiede sia messo a verbale: che fascisti di Ordine Nuovo nell'autunno 1968 tentarono di costituire a Reggio Calabria un circolo XX marzo».
Ciccio si ferma, ha capito che io non lo sto seguendo. Il mio unico pensiero, ora, è mio padre.
«Papà sapeva di Rita?», insisto.
«Sapeva che era una compagna delle Br che metteva a disposizione la sua villa a Firenze, quella che aveva ereditato,  per le riunioni della direzione strategica durante il sequestro. Era una che tirava fuori i soldi quando ne avevano bisogno, una che ha sempre spinto per far fuori il prigioniero. Dopo l’omicidio sparì dalla circolazione. Da quello che ne so io tuo padre si era già tirato fuori dall’organizzazione, era disperato per la morte di tua madre».
Lo interrompo. Mi basta quanto ho sentito per giudicarla colpevole. «In che modo è responsabile dell’incidente?».
«Tuo padre forse le aveva parlato dell’ossessione di Maria per il memoriale. E lei, a sua volta, lo avrà raccontato a qualcuno. Questo qualcuno, posso ipotizzare, che si adoperò perché il segreto rimanesse tale».
«Ammazzandola…».
«Non ho lo prove, Sole. Le ho cercate per trent’anni ».
«Ciccio ti prego, andiamo a casa. Mi sento male».
Davanti al cancello mi rendo conto che non abbiamo comprato alcun dolce. Ma anche questa volta Ciccio mi salva. Dicendo una mezza verità.
«Ci siamo fermati a Cala Rossano perché Sole non si sentiva troppo bene». Ovviamente mio padre si preoccupa per me e evita di fare domande su come abbiamo speso tutto quel tempo.
«Principessa vieni a sdraiarti sul letto», mi dice. Obbedisco.
Lui torna in cucina dove lo sta aspettando Ciccio. Chissà se gli dirà che lui sa. Chissà se gli parlerà di Rita. Da parte mia io non so se credere o meno a quello che mi ha detto Ciccio. Non riesco neanche a capire se sono arrabbiata, disgustata, nei confronti di mio padre. È possibile che la stronza sia riuscita a far finta di niente tutto questo tempo? È possibile che papà non abbia mai sospettato nulla. Ma soprattutto che c’entra Igor con tutta questa storia? Mentre guardo fuori dalla finestra e cerco di rielaborare tutte le informazioni che ho accumulato in questi pochi giorni, ho come una folgorazione.
In quel preciso momento entra Ciccio per avvertirmi che la cena è pronta. Lo blocco: «Rita conosceva Igor?».
«Chiedilo a tuo padre, è l’unico che può risponderti».
Mi alzo e mi trascino in cucina. Mi gira la testa, ma faccio finta di niente. «Allora, Ciccio. Mi stavi parlando dei memoriali di Moro dai quali mamma sperava di trovare informazioni su piazza Fontana, la strategia della tensione», dico io versando del vino nei loro bicchieri.
«Noi non li chiamavamo memoriali, bensì interrogatori. Perché questo furono in realtà. Sono trascrizioni che le Br fecero dopo aver sentito e registrato il presidente. Nel documento le Brigate Rosse fanno comunque parlare Moro in prima persona, come narratore. Tua madre voleva intercettare queste carte. Un brigatista,  pare una donna che chiamavano Nadia, redasse un dattiloscritto, che le Brigate Rosse dichiararono ricavato dall’interrogatorio registrato sui nastri magnetici e dagli appunti scritti da Moro. Dopo i documenti originali e i nastri magnetici furono bruciati. Una versione del testo fu trovata il 1° ottobre del 1978 in un appartamento-covo delle Br di via Montenevoso a Milano. Molti anni dopo, durante alcuni lavori di restauro nello stesso appartamento, fu rinvenuta un’altra versione del testo più completa, insieme a del denaro, 40 milioni di lire ormai fuori corso. Purtroppo la distruzione dei documenti originali, non permette di valutare le versioni successive, nella loro aderenza o meno alle risposte date da Aldo Moro nel corso del suo interrogatorio».
Papà segue attentamente quello che sta dicendo Ciccio. A tratti annuisce. «In totale ci sono quattro versioni del memoriale», prosegue Ciccio. «La terza e la quarta hanno consistenti differenze, che si spiegano nel rapporto copia-originale: infatti la terza stesura è un dattiloscritto che in talune parti riassume, in altre parti riporta integralmente oppure omette del tutto la prima della quale, o di parte della quale, la quarta è una fotocopia, lo dimostra il fatto che la perizia calligrafica compiuta su quanto trovato nel 1990 attesta l’autenticità della grafia di Aldo Moro. Non si conosce la causa dell’esistenza della terza stesura e se fu redatta dalle Brigate Rosse oppure dall'ufficio del Ministero dell'interno a cui nell’ottobre 1978 furono consegnati dal generale Dalla Chiesa i materiali trovati a via Montenevoso,. Materiali  che non si saprà mai se fossero la seconda stesura o addirittura l’originale. Sicuramente ci fu una seconda stesura destinata alle Colonne Brigatiste, la terza stesura invece nelle sue molteplici omissioni, e nel linguaggio questurile con cui fu redatta, pare corrispondere assai di più all’intento di non rendere noti i pesanti apprezzamenti che Moro fece nella prigionia su alcuni suoi compagni di partito e di governo».
«Vabbè, ma in tutte queste stesure c’è quello che mamma cercava?».
«Solo in parte», risponde Ciccio. «Chi non voleva che uscissero determinati nomi e cognomi c’è riuscito. E pare che fossero in molti a temere le confessioni di Moro durante il sequestro».
«Igor aveva materialmente in mano quei documenti? Mamma lo cercava per questo?», chiedo io.
«Presumibilmente no. Ma sapeva dove erano conservati. A casa di Nadia», risponde Ciccio.
«Nadia è la terrorista che ha trascritto i documenti della prima stesura. È stata mai identificata?», insisto.
«No», risponde secco Ciccio.
«La smettiamo di parlare di queste cose?», s’intromette papà.
«Parlate di quello che volete, io me ne vado a letto. Papi quando avete finito mi vieni a dare il bacio della buona notte?», dico alzandomi nervosamente da tavola.
«Certo principessa».
Passa mezz’ora e papà bussa alla mia porta. È arrivato il momento della verità, mi dico. Poi penso che forse è meglio lasciare le cose come stanno.  Ma le parole sono più veloci della prudenza. Lo gelo sulla porta.
«Qual era nome di battaglia di Rita?», chiedo senza preamboli, guardandolo negli occhi.
«Nadia», risponde.
«Vattene via», gli urlo, «non ti voglio più vedere». Lui  apre la porta e sparisce inghiottito da questa casa che ora mi soffoca.
Papà, come hai potuto farci questo. Come potrò mai perdonarti. Aiutami mamma, aiutami per favore. Insegnami a ritrovare un barlume d’amore in questa notte di odio. Sì perché io ora odio tutti. Daniele che mi ha portato i tuoi diari e mi ha costretta verso una verità che non sono sicura di aver mai voluto conoscere. Odio Ciccio che con immensa presunzione è piombato nella mia casa è ha gettato in faccia a me e a papà una serie di accuse gravissime. Odio papà perché non ha avuto fiducia in me tenendomi fuori dalla sua vita. Odio Rita che l’ha portato lontano da noi. E ce l’ho anche con te, mamma. Non dovevi morire così giovane. Non dovevi lasciarmi sola.

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