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Capitolo 11

L’8 marzo non è la festa delle donne, è la giornata di lotta delle donne. Ricordatevi di noi siamo morte in una fabbrica, sfruttate sul lavoro, sfruttate a casa e fuori. Ricordatevi di noi siamo morte ma per sempre noi vivremo eternamente sinchè durerà la lotta. Siamo state assassinate per avere scioperato voi dovete vendicarci. Vendicarci col lottare. Vendicarci col creare. Creare un mondo nuovo un mondo di giustizia un mondo di uguaglianza un mondo di libertà. Ricordatevi di Adele l’hanno presto incarcerata per avere contestato per avere militato. L’hanno messa in una cella una cella isolata per paura che parlasse con chi vuol sapere le cose. Sapere di un mondo nuovo un mondo di giustizia, un mondo di uguaglianza, un mondo di libertà.
Cari compagni del PCI che ci fate balenare davanti come se fosse oro il lavoro magari in fabbrica
Come l’uomo magari alla catena di montaggio e ci dite che questa è la strada della nostra liberazione. Cari compagni noi rispondiamo che ogni giorno facciamo lavoro gratis. Cari compagni che state un pelo più a sinistra e che comunque affermate che il lavoro delle donne non è produttivo e che le casalinghe la rivoluzione non faranno mai. Ancora non avete capito niente come sempre dei lavoratori ne vedete solo la metà. Solo quando noi donne non lavoreremo ci sarà veramente sciopero generale. Cari compagni voi che dite che non vi interessano le donne in generale ma solo le donne proletarie mentre voi facevate la lotta di classe le vostre compagne proletarie continuavano a lavorare gratis.
8 marzo 1972
Questo scriveva mia madre a proposito della famosa manifestazione. E le zie lo stavano leggendo quando sono rientrata a casa. Moira me la mette sotto il naso per dimostrare che aveva ragione lei. Si tratta dei versi di alcune canzoni che cantavano in quegli anni le femministe. «E Maria era una femminista», puntualizza Moira. «Una femminista anarchica», la corregge zia Carla, «la sua eroina era Emma Goldman, te lo ricordi vero che metteva sue citazioni ovunque?». «Certo che me lo ricordo, l’arteriosclerosi ancora non ha preso il sopravvento», replica. E zia Carla continua: «Le femministe anarchiche si sono ritrovate, con la loro pratica antigerarchica, a non negare le differenze biologiche e psicologiche esistenti tra maschi e femmine e a riconoscere che anche i ruoli sono sicuramente prodotti culturali attribuiti in base ai bisogni economici e politici propri di ogni società e quindi legati a variabili geografiche e storiche ben definite. Era necessario per Maria, come prima reazione, sottrarsi alla obbligatorietà dei ruoli in cui ciascuno è programmato a svolgere compiti specifici - le femmine, fattrici, angeli del focolare, ispiratrici di imprese; i maschi animali da soma, da guardia e da monta - e scegliere quali differenze valorizzare e affermare. Voi femministe, invece», continua rivolgendosi a Moira, «non avete affrontato in maniera chiara il problema del potere e non avete saputo dedurre le dovute conseguenze dalle analisi sulla “differenza”, fermandosi sulla soglia della contrapposizione maschile-femminile. Maria considerava questa contrapposizione come diversità dell’esperienza, gioco della differenza, creatività soggettiva». Mentre parlava zia Carla sfogliava il diario cercando qualcosa in particolare. «Ecco leggi. Leggi ad alta voce», mi fa non appena trovato la pagina.
«La storia ci ha insegnato che ogni classe oppressa ha ottenuto la sua liberazione dagli sfruttatori solo grazie alle sue stesse forze. È dunque necessario che la donna apprenda questa lezione, comprendendo che la sua libertà si realizzerà nella misura in cui avrà la forza di realizzarla. Perciò molto più importante per lei cominciare con la sua rigenerazione interna, facendola finita con il fardello di pregiudizi, tradizioni e abitudini. La richiesta di uguali diritti in tutti i campi indubbiamente giusta: ma, tutto sommato, il diritto più importante quello di amare e di essere amata. Se dalla parziale emancipazione si passerà alla totale emancipazione della donna, bisognerà farla finita con la ridicola concezione secondo cui la donna per essere amata, dolce d’animo e madre, deve comunque essere schiava o subordinata. Bisognerà farla finita con l’assurda concezione del dualismo dei sessi, secondo cui l’uomo e la donna rappresentano due mondi agnostici».
Subito dopo c’è una pagina datata ottobre 1975. Mia madre rimase profondamente scossa da uno spettacolo teatrale, che andò a vedere con Daniele. “Lo stupro”. Lei non sapeva che l’autrice di quel monologo, Franca Rame, era stata realmente violentata e seviziata una sera di marzo dopo essere stata sequestrata in un camion.
Sono andata con D. a vedere Lo Stupro. È una cruda e angosciante ricostruzione teatrale di una violenza sessuale subita da una donna in un camioncino da parte di cinque persone. Al centro dello spazio scenico vuoto c’è solo una sedia e una donna che racconta l’incubo, l’impotenza, il senso di vergogna, l’umiliazione. Continuo ad avere nelle orecchie quelle parole: “Muoviti puttana fammi godere”. Mi sento a disagio perché come sono rimasta immobile sulla mia poltrona di spettatrice, inerme e costretta a guardare, anche quella donna, la protagonista, è stata costretta a rimanere in quel furgone a aspettare che quei bastardi finissero di godere. Non voglio che mia figlia cresca in questo mondo. Non voglio che qualcuno possa decidere di usare il corpo di una donna, come fosse un oggetto, solo perché gli va. Non voglio che una donna debba aver paura nel denunciare i suoi aguzzini. Perché non c’è solo la violenza sulla strada, lo stupro vero e proprio, ma una seconda violenza. È la violenza dei tribunali e del processo, dove la donna viene messa a nudo e passa dalla parte del colpevole perchè è col suo comportamento, con la sua vita e le sue esperienze che si giustificano gli stupratori. Sono andata a dormire da D. perché a casa non c’è nessuno. E ho paura.
«Lo sai, sì che furono alcuni ufficiali dei carabinieri a ordinare lo stupro di Franca Rame?», dice con odio zia Moira.
«Possono ordinarti quello che vogliono, ma se hai un cervello, se hai un briciolo di umanità, se solo pensi che anche tu hai una madre, una fidanzata, una figlia, che potrebbe subire la stessa violenza, non lo fai», rispondo disgustata.
«Sei un’illusa. Sono stati quattro fascisti a violentarla e a seviziarla. È stato uno stupro politico», continua zia Carla. «Franca Rame fu aggredita per la sua attività in “Soccorso Rosso” a favore dei compagni detenuti e in generale dei carcerati. Nel 1998 si scoprì che fu un castigo ordinato da alti gradi dei carabinieri della divisione Pastrengo».
«Sempre loro, sempre le guardie. Cerca cosa ha scritto Maria a proposito di Giorgiana Masi», chiede zia Moira. Dopo alcune pagine trovo quella del 12 maggio 1977. Leggo ad alta voce.
A Giorgiana... se la rivoluzione d’ottobre fosse stata di maggio, se tu vivessi ancora, se io non fossi impotente di fronte al tuo assassinio, se la mia penna fosse un’arma vincente, se la mia paura esplodesse nelle piazze, coraggio nato dalla rabbia strozzata in gola, se l’averti conosciuta diventasse la nostra forza, se i fiori che abbiamo regalato alla tua coraggiosa vita nella nostra morte diventassero ghirlande della lotta di noi tutte, donne, se ... non sarebbero le parole a cercare d’affermare la vita ma la vita stessa, senza aggiungere altro. 12 maggio 1977
Zia Moira resta impietrita. «Questo testo venne scritto sul manifesto del movimento femminista di Roma subito dopo l’omicidio», dice con un nodo alla gola. Cerca invano di ricordare chi fosse l’autrice. Poi si mette a raccontare. Al presente. «Quel 12 maggio, nell’anniversario della vittoria per la legge sul divorzio, i radicali decidono di tenere un sit-in in piazza Navona, nonostante l’assoluto divieto di manifestare in vigore nella Capitale dopo la morte, il 21 aprile, di un poliziotto nel corso di scontri di piazza. Il movimento e i gruppi di sinistra aderiscono all’iniziativa, per protestare contro il restringimento degli spazi di agibilità politica e il pesante clima repressivo, favorito dall’appoggio esterno del PCI al cosiddetto “governo delle astensioni” di Andreotti. Per far rispettare, a qualsiasi costo, il divieto, il ministro dell’Interno Francesco Cossiga schiera migliaia di poliziotti e carabinieri in assetto di guerra, affiancati da agenti in borghese delle squadre speciali, in alcuni casi travestiti da “autonomi”. Fin dal primo pomeriggio la tensione è molto alta. A quanti difendono il diritto di manifestare con brevi cortei e fortunose barricate, le forze di polizia rispondono sparando candelotti lacrimogeni e colpi di arma da fuoco. Anche numerosi fotografi, giornalisti, passanti e il deputato Mimmo Pinto sono picchiati e maltrattati. Pure tua madre si beccò diverse manganellate sulla testa. Ma non volle andare all’ospedale. Chissà perché non ha scritto niente di questo…». Moira si interrompe per qualche secondo. «Forse non era così importante in confronto alla morte di Giorgiana», faccio io per farla continuare a raccontare.
Fa un cenno di sì con la testa e prosegue. «Con il passare delle ore la resistenza della piazza si fa più decisa, e vengono lanciate le prime molotov. Mentre nelle strade sono in corso gli scontri, i parlamentari radicali protestano alla Camera contro le aggressioni e le violenze della polizia, fra gli insulti di quasi tutte le forze politiche. Erano quasi le 20 quando, durante una carica, due ragazze sono raggiunte da proiettili sparati da Ponte Garibaldi, dove erano attestati poliziotti e carabinieri. Elena Ascione rimane ferita a una gamba. Giorgiana Masi, che aveva solo19 anni, viene centrata alla schiena. Muore durante il trasporto in ospedale. Le chiare responsabilità emerse a carico di polizia, questore, Ministro dell’Interno, hanno portato il governo a intessere una fitta trama di omertà e menzogne. Cossiga, dopo aver elogiato in Parlamento “il grande senso di prudenza e moderazione” delle forze dell’ordine, ha modificato più volte la propria versione dei fatti. Costretto dall’evidenza ad ammettere la presenza delle squadre speciali - tra gli uomini in borghese armati furono riconosciuti un commissario e un agente della squadra mobile – ha continuato però a negare che la polizia abbia sparato, pur se smentito da vari testimoni e dalle inequivocabili immagini di foto e filmati. L’inchiesta per l’omicidio si concluse nel 1981 con una sentenza di archiviazione “per essere rimasti ignoti i responsabili del reato”. Successive indagini hanno tentato, senza risultati significativi, di individuare gli autori dello sparo mortale in un “autonomo” deceduto da tempo, oppure nel latitante Andrea Ghira, uno dei tre fascisti condannati per il massacro del Circeo».
Zia Carla s’intromette per raccontare la sua storia: «Il giorno dopo l’uccisione di Giorgiana Masi, il movimento per sfuggire ai divieti aveva convocato alcune manifestazioni decentrate. Una partiva da Testaccio e puntava su Garbatella. Proprio a piazza Bartolomeo Romano, al Palladium, un gruppo si staccò e iniziò a lanciare bocce contro la stazione dei carabinieri. Dalla caserma uscirono dei militari con le armi e spararono. Fortunatamente non successe nulla di tragico e il corteo riprese fino a piazza Sauli. Stava per sciogliersi quando arrivò una carica molto mirata. Claudio Pallone stava tranquillo vicino all’angolo della chiesa, quasi sfottente nella sua situazione di disarmato. Non aveva nulla addosso ma evidentemente aveva il suo volto, i suoi connotati noti, i tratti di un viso autonomo e conosciuto. Fatto sta che un gippone lo puntò scaricando una specie di robocop che iniziò ad inseguirlo. Claudio corse forte per via Comboni e mentre stava per infilarsi nel lotto 24, s’accorse che avevano preso di mira una ragazza che conosceva. Un attimo di esitazione e la guardia ne approfittò per lanciargli un manganello tra le gambe. Con una smorfia cadde a terra e subito gli furono tutti addosso. Dicono che mentre lo portavano dentro sorrideva agli insulti che gli piovevano addosso e più delle botte lo colpì lo sguardo di Lucilla ammanettata vicino a lui. Quella comunque fu l’ultima uscita del 77 per le strade di Garbatella. Il quartiere ha isolato i teppisti provocatori, scriveva l’Unità il giorno dopo. Nemmeno una parola sul fatto che stavamo lì perché la polizia di Cossiga aveva ucciso Giorgiana Masi. Niente1».
Mi viene spontaneo pensare a Carlo Giuliani, ammazzato durante il G8 del 2001 da un carabiniere dilettante, militare da neppure un anno, in circostanze mai chiarite. Io ci stavo a Genova e stavo pure alla manifestazione che un mese dopo la tragedia era stata organizzata a Roma, a Ponte Garibaldi davanti alla lapide per Giorgiana Masi. Ci siamo sdraiati per terra con le braccia larghe, la stessa ultima posizione di Carlo. Alle 18.17, nell’ora in cui è morto, abbiamo attraversato il Lungotevere fino a piazza Belli dove è stata scoperta la targa con sopra scritto: “Questa piazza è dedicata alla memoria di due giovani stroncati dalla medesima violenza. Giorgiana Masi, uccisa a 19 anni a Roma il 12 maggio 1977 dalla polizia di Cossiga. Carlo Giuliani, ucciso a Genova il 20 luglio 2001, a 23 anni, dai carabinieri di Berlusconi”. Sotto, uno striscione: “Noi siamo il mondo, non ci fermerete”.
Giuseppe Pinelli, Giorgiana Masi, Carlo Giuliani. Ma anche Franco Serantini, Roberto Franceschi, Fausto e Iaio. E poi meno di un anno fa Federico Aldovrandi morto a Ferrara per un “ufficiale” malore. Federico aveva diciotto anni, aveva fatto bisboccia con amici a Bologna. Di ritorno a Ferrara le guardie lo fermano per uno «strano comportamento» alle 6 del mattino. Era il 25 settembre del 2006. Dopo l’intervento degli agenti Federico muore. Dicono per un malore. I segni di quel malore sono ancora visibili nella foto scattata all’obitorio: sono i segni di un pestaggio. Nessuna colpa, nessun colpevole. Per lui come per l’anarchico ventenne Franco Serantini che fu selvaggiamente percosso dalle forze di polizia durante una carica contro i contestatori del comizio del missino Niccolai il 5 maggio del ’72 a Pisa. Franco morì due giorni dopo nel carcere della città toscana, privo di cure, per frattura della scatola cranica.
Nessuna colpa, nessun colpevole, anche per Piero Bruno ammazzato a Roma il 22 novembre 1975 nel corso di una manifestazione a favore della liberazione dell’Angola dal dominio portoghese. I carabinieri aprono il fuoco e lo uccidono. Aveva diciotto anni ed era bellissimo. Sul diario di mamma c’è attaccata una foto. E un articolo recente che probabilmente ci ha lasciato dentro Daniele.
«Urlava di dolore Piero mentre lo trascinavano per le ascelle quasi sotto il cancello dell’ambasciata dello Zaire. Strillò “No!”, con le mani a coprirsi la faccia. Lo sentì chiaro e forte la signora affacciata su via Muratori, una strada del centro di Roma che s’arrampica sul Colle Oppio, di fronte al Colosseo. È il pomeriggio del 22 novembre ‘75. Un corteo andava da Santa Maria Maggiore a piazza Navona. Piero Bruno era un diciottenne di Garbatella, studiava all’Armellini, andava agli scout e faceva politica in Lotta continua. Sarebbe morto il giorno dopo. La signora aveva sentito il ragazzo lamentarsi, dopo la gragnuola di colpi. Lui le diceva di non sentire più le gambe. L’avevano colpito alla schiena. Poi la signora vide l’uomo arrivare e puntare una pistola sul ragazzo sdraiato: «Cane, bastardo, carogna... ti ammazzo». Piero fece per coprirsi la faccia ma l’uomo “scherzava”, la pistola che gli puntava alla tempia era scarica. Il cane scattò a vuoto “pronunciando” il “click” tante volte letto sui giornaletti. La donna vide l’uomo chinarsi e lo sentì dire al ragazzo: «Ma io ti ammazzerei veramente...». L’uomo era un agente della polizia politica, antenata della Digos. Ma Piero Bruno stava sempre più male perché già colpito alla schiena, non poteva più muovere le gambe. E l’emorragia interna stava facendo il suo mestiere di complice del delitto. Era solo, in mezzo alle “guardie” inferocite, che lo trascinavano, già ferito, più vicino possibile all’ambasciata per mascherare un loro agguato in un assalto da cui si sarebbero dovuti difendere. L’ambulanza, colpevolmente in ritardo, lo portò al S. Giovanni dove sarebbe morto il giorno dopo, piantonato. Era lui il “criminale”, lui che s’era staccato con un gruppo di compagni di Lotta continua dal corteo che manifestava per la giovanissima Repubblica popolare dell’Angola. Volevano fare una fiammata sul cancello dell’ambasciata dello Zaire, paese confinante che - in buona compagnia del Sudafrica dell’apartheid, di Usa e Cina - armava e pagava i mercenari che combattevano la fragile democrazia popolare di Agostino Neto, poeta e presidente. L’azione di Piero era solo dimostrativa, sarebbero tornati in corteo abbracciati dai compagni. Una fiammata e basta, rogna momentanea solo per chi avrebbe dovuto ripulire la scena. Ma la polizia e i carabinieri li aspettavano, imboscati, loro con due “bocce”, le guardie con le armi in pugno, sparò anche un ufficiale dei carabinieri, spararono «in piedi con l’avambraccio ad angolo retto rispetto al braccio, e da terra con l’avambraccio verso l’alto, sempre in direzione del gruppo di giovani» (deposizione degli agenti), spararono per ammazzare e un giudice, un anno dopo, trovò la reazione dei militi «commisurata all’offesa». «Irresponsabili», si scrisse sulla sentenza di insabbiamento, furono casomai i manifestanti.
Tutto archiviato, secondo copione: archiviato l’inseguimento di ragazzi disarmati, archiviati i bossoli conficcati nelle macchine, doveva essere così. A nulla valse lo sforzo di Umberto Terracini, figura mitica di dissidente del Pci, padre costituente e del Soccorso rosso; a nulla servì il lavoro di legali e della controinchiesta dei suoi compagni. Marco, un altro architetto che curò questa e altre perizie del genere, non resse lo choc. Morì nei primi anni ‘80, ancora turbato. Furono zittiti e intimiditi i testimoni; fu negato un pubblico dibattimento. Restano, ingialliti, gli spezzoni dei cinegiornali dell’epoca, le foto stupende (e il racconto) di Tano D’Amico, i titoli dei giornali “normali” a scimmiottare una distanza da entrambe le parti “in guerra”, a offrire due versioni solo apparentemente simmetriche. Il chirurgo della rianimazione imprecò: «Mi hanno incastrato», disse e tirò dalla finestra, a certi amici, le chiavi della macchina. Per colpa di un diciottenne coi capelli lunghi doveva saltare la cenetta del sabato sera. Poi aprì e ricucì Piero. Furono attimi concitati. Tano D’Amico era lì con un altro giovane di Lotta continua, la stessa organizzazione di Piero. Era un architetto, figlio dell’allora segretario della Dc. Raccontò piangendo la scena a suo padre, medico a sua volta. Allora arrivò un’altra equipe che riuscì a estrarre i proiettili dal corpo di Piero. Ce l’avrebbe fatta, dicevano, se solo avesse superato lo choc di due operazioni una dopo l’altra. Troppo anche per un corpo sano. È domenica 23 novembre ‘75. Qualcuno disse di aver visto Piero sorridere, si disse che avrebbe detto all’infermiera: «Ci penseranno i compagni a vendicarmi». È da trent’anni che i suoi compagni lo vendicano. Di Piero parlano ancora i muri della Garbatella»2.
È vero. La giustizia la si può trovare anche fuori delle aule dei tribunali. «Far sapere la verità, lo stato delle cose, spetta a noi», dico ad alta voce. E' nostro compito civile informare, raccontare, chiarire i punti oscuri delle vicende. La nostra forza sta proprio nella divulgazione della memoria affinché tutti possano sapere, tutti possano valutare con consapevolezza.
Il computer trilla. È arrivato un messaggio via e-mail. Vado a vedere. È una lettera di Daniele. La stampo e la portò in veranda per leggerla alle zie. «Non ho avuto il coraggio di dirtelo a Ventotene. È stato difficile dirti dei miei sospetti sulla morte di tua madre. In questi anni ho letto, riletto, studiato, confrontato il diario di Maria. Ho cercato di rimettere ordine in quegli anni collegando la storia ufficiale con quella personale di tua madre. Ho tracciato una crolonogia degli eventi che hanno in qualche modo attirato la sua attenzione. Ho preso appunti anche sulle persone che ha conosciuto. Ma non sono riuscito a capire. Poi ho incontrato Francesco Di Biase, e mi ha detto lui che un’idea se l’è fatta. Chiamalo sarà felice di aiutarti. Ti voglio bene, Sole. So che farai la cosa giusta. Che decida di non andare avanti, oppure sì, sappi che sono a tua completa disposizione per qualsiasi cosa».
«Butta immediatamente quella lettera», urla zia Moira. «Te l’avevo detto che è uno stronzo. Non sprecare il tuo tempo in una cosa che ti farà stare male». «Ma io già sto male, zia. Lo capisci?», le rispondo cercando di non farmi scoprire con gli occhi lucidi. Zia Carla, per allentare la tensione, ci propone di andare a fare una passeggiata sulla spiaggia. Ma io non me la sento.
«Sono convinta che Daniele mi abbia portato i diari per farmi conoscere mia madre, non per farmi trovare le ragioni della sua morte». Come tre lucertole al sole ce ne siamo state per un bel po’ sdraiate sui lettini in veranda senza parlare. Zia Moira a sonnecchiare, zia Carla completamente presa dalla lettura di un libro di Erri De Luca, io scaraventata nel passato dagli scritti di mamma.


Note:
1 Claudio D’Aguanno, Garbatella ai tempi dell’Autonomia, MaGMA, 23 novembre 2007. “Il ragazzo che solleva la mano nel segno della P38 dando il proprio nome per un arruolamento nel partito armato è Claudio Pallone, un compagno di Garbatella che abitava ai palazzi storti di san Quintino. Frequentava il Borromini, era l’amico di Giancarlo De Simoni. Ma le loro vicende sono diverse. Claudio è morto ad un posto di blocco dei carabinieri dopo una rapina in banca e nella storia c’è rimasto pure Arnaldo, un personaggio straordinario sbucato da noi da un altro mondo e un’altra epoca. Anche Giancarlo non c’è più stroncato da un tumore dopo che s’era trasferito in Australia”.

2 Checchino Antonimi, Liberazione, 27 novembre 2005

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