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Capitolo 15

Camminiamo abbracciati dal porto fino a casa. In silenzio per assaporare quell’intimità ritrovata dopo la partenza delle rumorose zie. Non una parola. Ma quella stretta sulle mie spalle, ne vale un’infinità. Solo dopo aver varcato la porta di casa, papà apre bocca. «Tesoro, devo dirti una cosa». Si è lascia cadere nella tua poltrona e con il viso nascosto tra le mani inizia a parlare. «È difficile Sole. Non so da dove cominciare. Questo è il segreto della mia vita. Non ne ho parlato mai con nessuno».
«Ma, io non sono nessuno, papà. Sono tua figlia. Stai male? Hai litigato con tua moglie? Hai problemi finanziari? Ti prego, papà, rispondimi. Mi stai mettendo paura».
«No, amore mio. Si tratta di qualcosa di tanti, tanti anni fa. Si tratta di tua madre, dell’incidente e di quello che ti ha detto Daniele».
Se mi avesse dato una coltellata avrei sentito meno dolore al petto. Mi siedo davanti a lui. Gli prendo le mani, affusolate, belle, curate come sempre, per dargli coraggio. «Niente di quello che mi dirai potrà mai impedirmi di amarti. Niente e nessuno potrà separarci, papà», dico per rincuorarlo. Ma papà continua a stare zitto e a guardarmi, come se volesse essere sicuro di quello che sta facendo. Vuole convincersi che tutto rimarrà uguale dopo la sua confessione, anche se sa perfettamente che non sarà così.
«Facevo parte anche io delle Br».
Sto sognando. No. Non può essere vero. Il mio papà non c’entra nulla con la lotta armata, gli omicidi, i sequestri, gli attentati. «Ma che stai dicendo?».
«Ero un irregolare e sono riuscito a far perdere le mie tracce. Pochi dell’organizzazione conoscevano il mio nome e quelli che sapevano, hanno voluto coprirmi anche dopo. Nessuno mi ha tirato dentro quella storia».
«Non ci credo», continuo a ripetere scuotendo la testa. «Non ci credo».
«Il mio compito consisteva soprattutto nello svolgere le inchieste sui possibili obiettivi e insegnare ai compagni a sparare, visto che ero bravo. Proprio per questo poi mi hanno chiesto di partecipare al sequestro. Per tutti questi anni ho tenuto nascosta la verità e a volte anche a me stesso. Non riuscivo a trovare il modo di spiegarmi. Io non volevo che il presidente fosse assassinato». Ripete quasi lo dicesse a se stesso. «Io non volevo che lo assassinassero, ma loro ragionavano solo in termini politici: c’era una guerra, mi dicevano, e bisognava vincerla».
«Cosa c’entri tu con il presidente papà?».
Ignorando completamente la mia domanda continua: «All’indomani del ritrovamento del cadavere mi facevo schifo. L’ho saputo dalla televisione che l’avevano ucciso, ma io ero responsabile quanto i compagni che l’avevano materialmente fatto. Eppure dovevo reagire. Tua madre era morta da poco, tu avevi bisogno di me e proprio non potevo permettermi di andare fuori di testa. Mi sono dato da fare per dimenticare e per farmi dimenticare. Rita ci invitò per qualche tempo nella sua villa vicino a Firenze. Mi sono convinto che lì avremmo potuto iniziare a vivere. È per questo che l’ho sposata. Non certo perché ero da sempre innamorato di lei come tua madre credeva».
«Con il passare degli anni continuavo a illudermi che un giorno mi sarei svegliato e che tutto fosse solo un brutto sogno. Mi sono sentito abbastanza sicuro fino al 1996. Poi durante il processo del ‘96 uno dei testimoni presenti in via Fani quella mattina ha ripetuto che il parabrezza del suo motorino fu colpito da una raffica di mitra sparata dal motociclista seduto alle spalle del conducente di una moto Honda di grossa cilindrata. L’Honda fu notata anche da un agente di polizia che si trovava casualmente, e in borghese, in via Fani».
«Hai partecipato all’agguato di via Fani?», insisto io. Ma è come se non mi ascoltasse.
«Tua madre non sapeva niente, ma quando la mattina del 16 marzo, un paio d’ore dopo l’attentato la vidi a via Fani, mi prese un colpo. Mi chiese cosa ci facevo lì e io le mentii sostenendo che l’avevo raggiunta dopo che al giornale mi avevano detto di averti mandata sul posto del rapimento. Non so se ci ha creduto. Per questo voglio leggere i suoi diari. Ora che li hai tu sto tranquillo. Non sapevo che li avesse Daniele».
Io li ho letti, ma forse non così attentamente. Non mi pare che ci sia nulla di quello che mio padre ha sospettato in questi anni. A questo punto deve esserci sicuramente una relazione se mia madre li ha volutamente lasciati da Daniele.
«Durante i giorni del sequestro ricordo che mi faceva domande molto circostanziate. Poi si giustificava con la scusa che riflettere in due su un determinato argomento potesse essere molto più proficuo».
«Perché stavi a via Fani quel giorno, papà?».
«Dovevo fare da copertura all’azione. Poi ci sono tornato per vedere come era andata».
«Papà, non riesco a capire nulla. Mi vuoi spiegare con calma quello che accadde? Che ruolo hai avuto? Se c’entra qualcosa la morte di mamma. Ti prego papà, è come se avessi ricevuto un colpo in testa e tu stai fermo, davanti a me, senza aiutarmi…».
«Non posso dirti nulla di più, principessa. Non posso». Papà si alza di scatto, va in bagno. Sento l’acqua del rubinetto che scorre. Forse si sta sciacquando la faccia. Torna da me come se niente fosse accaduto. Eppure in un solo colpo sta riscrivendo la mia vita, quella di mia madre, la nostra.
«Cosa vuoi che ti prepari per cena?». Questa volta sono io a non rispondere alla domanda. Torno all’attacco: «Non dirò nulla papà, lo giuro. Non scriverò nulla. Né ne parlerò con qualcuno, nemmeno con le zie o con Daniele. Ti prego.»
«Ci devo pensare», prende tempo per poi continuare come se riflettesse con se stesso. «C’è qualcuno che non vuole che certe cose vengano fuori. Come spiegarsi altrimenti la mia estraneità a tutti i processi, alle inchieste, e perfino alle supposizioni dei giornalisti…»
«Io ho il diritto di sapere, tu sei mio padre. A maggior ragione se ritieni che questa storia in qualche modo sia coinvolta la mamma».
Papà inizia a preparare da mangiare. Io ho la nausea. E poi rabbia, delusione, amarezza, incredulità, senso di soffocamento. Gli squilla il telefonino. È la stronza.
«Come stai?», le chiede con un’irritante dolcezza.
Mi viene da vomitare. Esco sulla veranda per respirare l’aria della sera. C’è uno splendido tramonto a Ventotene. A mia madre piaceva tanto aspettarlo sulle scalette a strapiombo della spiaggia di Parata Grande. Me lo ricordo benissimo. Ecco ora vorrei tornare indietro nel tempo, rivivere quegli spensierati giorni di vacanza trascorsi insieme. Vorrei farmi coccolare come lei faceva sempre la sera quando mi leggeva la favola per farmi addormentare o la mattina quando mi portava la colazione a letto. Quella mezz’ora di baci e carezze mi davano la forza per affrontare la giornata. Ne ho bisogno anche ora. Ho bisogno di essere forte perché non so più chi è quell’uomo che sta lì in cucina. Come ha potuto mio padre passare la sua vita conservando un segreto così grande? Come ha potuto sopravvivere al dolore immenso che ha provocato la morte di mia madre sposandosi con un'altra? È un mostro.
«Vado a dormire, non ho fame», gli dico rientrando in casa. Lui sta ancora al telefono, mi fa segno di no con il dito. Ma io faccio finta di non vederlo. Mi butto sul letto e quando bussa alla porta faccio finta di dormire. Entra ugualmente. Mi accarezza la fronte, mi bacia, prende i diari e se ne torna in cucina. Accende la tv.
Nel letto cerco di raccogliere i pensieri. Ha parlato di via Fani. Cosa c’è di ancora non scoperto di quel giorno? Prendo il portatile e inizio una ricerca che mi spaventa. Scrivo sul motore di ricerca: via fani + honda. Trovo 722 pagine in italiano, 5670 nel web. Apro qualche link a caso.
Su uno trovo: «È evidente che ancora oggi, a distanza di trent’anni, non si sa per certo quanti fossero i brigatisti che componevano il commando che agì in via Fani. Perfino i brigatisti che ne facevano parte non sono stati concordi nel numero. Moretti in un’intervista a Carla Mosca ha anche sbagliato i nomi e poi si è corretto: la memoria negli anni non è più la stessa… in cose così marginali… Il problema del numero dei partecipanti non è certo secondario, visto che c’è il sospetto di partecipazioni “esterne”. Inoltre ci sono ben tre testimoni che parlano di una moto Honda presente sul luogo della strage, con due uomini a bordo. Uno dei testimoni, l’ingegner Alessandro Marini, che arrivava sul suo motorino, si era visto addirittura sparare una raffica di mitra contro, dall’uomo seduto sul sellino posteriore della Honda. I brigatisti però negano, tutti: non c’era nessuna moto, in via Fani».
Poi quest’altro. Più lungo.
«L’organizzazione di quest’azione era pronta per il 16 mattina come uno dei giorni probabili in cui sarebbe potuto o sarebbe anche potuto non passare l’onorevole Moro, perché non c’era certezza, perché avrebbe anche potuto fare un’altra strada. Era stato verificato che passava lì da alcuni giorni, ma non era stato verificato che passasse lì sempre». Così, davanti alla Corte d’assise d’appello di Roma, Valerio Morucci, uno degli esecutori materiali del sequestro Moro, inizierà il racconto di quel 16 marzo 1978. In effetti, come confermato dagli agenti di scorta in turno di riposo quel giorno, il percorso che passava per via Mario Fani era uno dei più frequenti, ma non l’unico: poteva anche essere cambiato sul momento per motivi di sicurezza ma anche in funzione del traffico o di impegni improvvisi. In Commissione d’inchiesta Eleonora Moro, vedova del presidente democristiano, dirà anzi che negli ultimi tempi Moro e la scorta «si angosciavano enormemente su queste cose e, quindi, cercavano nei limiti del possibile di cambiare i percorsi tutti i giorni o ogni due giorni, di vedere di sistemare in qualche modo cambiamenti degli orari se era possibile». L’elementare, cruciale domanda che ne deriva è dunque: «come potevano essere le Brigate Rosse così sicure che quel giorno, a quell’ora in quel punto, l’onorevole Moro sarebbe passato?» Eppure, l’agguato era stato pianificato con ragionevole certezza proprio il 16 marzo e proprio in via Fani: Quella mattina, alla Camera dei Deputati, era previsto il dibattito sulla fiducia al IV governo Andreotti, detto di “solidarietà nazionale”, della cui nascita Aldo Moro era il massimo artefice. Per la prima volta dal 1947, il governo poteva contare sui voti determinanti del Partito Comunista. Tale concomitanza difficilmente può essere considerata un caso.
Nella notte tra il 15 e il 16, in tutt’altra zona di Roma, erano state tagliate le gomme del furgone con cui il fioraio Antonio Spiriticchio ogni mattina di recava a vendere fiori all’angolo tra via Fani e via Stresa, cioè proprio nel punto dell’attentato. I “vandali” volevano evidentemente evitare intralci all’azione prevista la mattina seguente.
Al processo d’appello la brigatista Adriana Faranda dirà di avere saputo della data fatidica due-tre giorni prima, e che i “regolari” del Nord, partecipanti all’azione di via Fani, giunsero a Roma il giorno precedente. Valerio Morucci, a sua volta, dichiarerà che furono rimproverati coloro che erano stati incaricati del furto delle auto, perché tre giorni prima del 16 marzo non era stata ancora procurata la Fiat 132 che doveva servire per il trasporto del sequestrato da via Fani. Il brigatista Antonio Savasta confermerà che il “commando” andò per la prima volta “operativo” in via Fani proprio il 16 marzo, il che dimostra che i preparativi furono affrettati per poter compiere l’azione criminosa quel giorno.
Appena dopo le ore 9 del 16 marzo, all’incrocio tra via Fani e via Stresa nella zona di Monte Mario a Roma, una Fiat 128 bianca con targa diplomatica frena bruscamente all’altezza dello stop. Le due auto provenienti da dietro, una Fiat 130 blu con a bordo il presidente della DC Aldo Moro e un’Alfetta bianca di scorta, non riescono ad evitare il tamponamento a catena, anche perché le luci di stop della 128 erano state manomesse. L’autista della 130, l’appuntato Domenico Ricci intuisce la trappola e cerca ripetutamente di fare marcia-avanti e marcia-indietro per guadagnare un varco su via Stresa, ma è troppo tardi. Il capo del commando, Mario Moretti, scende dalla 128 e comincia a far fuoco sulla 130; contemporaneamente, la 130 e l’Alfetta sono investite dal fuoco di fucili mitragliatori di almeno 4 uomini travestiti da piloti che sbucano dalle siepi del palazzo di fronte. Poi, con una calma quasi surreale visto quello che è appena successo, Aldo Moro viene prelevato dalla 130 e fatto salire su una 132 che si allontana preceduta e seguita da due 128.
La dinamica dell’agguato, insieme a ciò che avvenne nei minuti precedenti e successivi, è stata ricostruita in cinque processi sulla base delle prove, dei riscontri balistici e delle dichiarazioni rese dai brigatisti e dai testimoni. Nonostante ciò, numerosi sono ancora i punti non chiariti. Quanti furono e chi furono i componenti del commando che attuò la strage di via Fani? Non sarà mai stabilito con certezza. La sentenza del processo di primo grado in Corte d’assise, sulla base di tutte le testimonianze, stabilirà la presenza di 14 terroristi tra via Fani e via Stresa; i brigatisti invece, tra ripensamenti, aggiunte e sottrazioni, hanno sempre dichiarato un numero non superiore a 10. Dei 91 bossoli recuperati sul posto, ben 49 appartengono ad una stessa arma, 22 ad un’altra ed il resto alle altre quattro armi usate nell’operazione: chi esplose da solo quei 49 colpi? Gli sparatori, che si suppone si conoscessero tra loro, indossavano divise da piloti civili. I brigatisti diranno di esser ricorsi al travestimento per non dare nell’occhio, in quanto nella zona di via Fani abitavano parecchi piloti dell’Alitalia. L’accorgimento però sembra quantomeno singolare: nel momento della fuga le divise sarebbero diventate pericolosi segni di riconoscimento. Allora perché rendersi così riconoscibili? Forse perché non tutti i brigatisti si conoscevano tra loro?
Chi erano i due motociclisti a bordo della moto Honda blu di grossa cilindrata che fu vista transitare subito dopo l’agguato, e da cui partirono alcuni colpi di mitra verso un testimone? La presenza della moto, sempre ufficialmente negata dai brigatisti, è avvalorata da numerose testimonianze: che si trattasse di un intervento inatteso o indesiderato sulla scena dell’agguato, da parte di brigatisti non regolari o comunque di entità estranee?
Eliminata la scorta e rapito Moro, il commando si dileguò nel traffico di Roma con tre automobili: una Fiat 132 con il sequestrato e due Fiat 128. Incoerente, a tratti del tutto inverosimile appare il racconto dei brigatisti sulla fuga da via Fani, il primo trasbordo del sequestrato in un furgone, il secondo trasbordo in un’altra auto e infine l’arrivo al covo-prigione di via Montalcini 8 alla Magliana, a trenta chilometri dal luogo della strage, dove Moro sarebbe stato tenuto per tutti i 55 giorni del sequestro. Ancor più incredibile è la beffarda modalità di ritrovamento delle tre macchine usate per la fuga. Furono trovate “a rate”, il 16, il 17 e il 19 marzo, in via Licinio Calvo, alla Balduina, non lontano da via Fani. Difficile pensare che chi le abbandonò fosse disposto ad avventurarsi per Roma con automobili segnalatissime e ricercatissime: forse poteva contare su una base logistica mai individuata nei dintorni?
Nella zona di via Fani, subito dopo il rapimento, un black out interruppe le comunicazioni telefoniche impedendo le prime fondamentali telefonate di allarme e coprendo di fatto la fuga dei terroristi. Per la SIP il black out fu dovuto al sovraccarico delle chiamate; per i brigatisti ad alcuni “compagni” che lavoravano nella compagnia telefonica. Nessuno ha però finora spiegato come mai il giorno prima (15 marzo, alle 16:45) la struttura della SIP collegata al SISMI fosse stata messa in stato di allarme come doveva accadere in situazioni d’emergenza quali crisi nazionali e internazionali, eventi bellici e atti di terrorismo.
Quella mattina, verso le 9, il carrozziere Gherardo Nucci fece un salto a casa, in via Fani 109, a prendere la macchina fotografica: doveva mandare alle compagnie assicurative le foto di alcune automobili da riparare. Subito dopo la strage e prima ancora dell’arrivo di polizia e ambulanze, dal suo balcone Nucci riuscì a scattare alcune foto della scena della strage. L’indomani la moglie, una giornalista dell’agenzia ASCA, consegnò il rullino al magistrato inquirente Luciano Infelisi. Le foto sparirono: non se ne seppe più nulla?».
Già. Chi era il personaggio ritratto nella foto? Ed era veramente mio padre il misterioso terrorista sulla moto? Lui era alla guida o era quello che ha sparato la raffica di mitra? Devo essere arrabbiata con lui? Lo devo mandare via di casa? Devo rompere ogni tipo di rapporto?
Il sonno prende il sopravvento.

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