Camminiamo
abbracciati dal porto fino a casa. In silenzio per assaporare
quell’intimità ritrovata dopo la partenza delle rumorose zie. Non
una parola. Ma quella stretta sulle mie spalle, ne vale un’infinità.
Solo dopo aver varcato la porta di casa, papà apre bocca. «Tesoro,
devo dirti una cosa». Si è lascia cadere nella tua poltrona e con
il viso nascosto tra le mani inizia a parlare. «È difficile Sole.
Non so da dove cominciare. Questo è il segreto della mia vita. Non
ne ho parlato mai con nessuno».
«Ma,
io non sono nessuno, papà. Sono tua figlia. Stai male? Hai litigato
con tua moglie? Hai problemi finanziari? Ti prego, papà, rispondimi.
Mi stai mettendo paura».
«No,
amore mio. Si tratta di qualcosa di tanti, tanti anni fa. Si tratta
di tua madre, dell’incidente e di quello che ti ha detto Daniele».
Se
mi avesse dato una coltellata avrei sentito meno dolore al petto. Mi
siedo davanti a lui. Gli prendo le mani, affusolate, belle, curate
come sempre, per dargli coraggio. «Niente di quello che mi dirai
potrà mai impedirmi di amarti. Niente e nessuno potrà separarci,
papà», dico per rincuorarlo. Ma papà continua a stare zitto e a
guardarmi, come se volesse essere sicuro di quello che sta facendo.
Vuole convincersi che tutto rimarrà uguale dopo la sua confessione,
anche se sa perfettamente che non sarà così.
«Facevo
parte anche io delle Br».
Sto
sognando. No. Non può essere vero. Il mio papà non c’entra nulla
con la lotta armata, gli omicidi, i sequestri, gli attentati. «Ma
che stai dicendo?».
«Ero
un irregolare e sono riuscito a far perdere le mie tracce. Pochi
dell’organizzazione conoscevano il mio nome e quelli che sapevano,
hanno voluto coprirmi anche dopo. Nessuno mi ha tirato dentro quella
storia».
«Non
ci credo», continuo a ripetere scuotendo la testa. «Non ci credo».
«Il
mio compito consisteva soprattutto nello svolgere le inchieste sui
possibili obiettivi e insegnare ai compagni a sparare, visto che ero
bravo. Proprio per questo poi mi hanno chiesto di partecipare al
sequestro. Per tutti questi anni ho tenuto nascosta la verità e a
volte anche a me stesso. Non riuscivo a trovare il modo di spiegarmi.
Io non volevo che il presidente fosse assassinato». Ripete quasi lo
dicesse a se stesso. «Io non volevo che lo assassinassero, ma loro
ragionavano solo in termini politici: c’era una guerra, mi
dicevano, e bisognava vincerla».
«Cosa
c’entri tu con il presidente papà?».
Ignorando
completamente la mia domanda continua: «All’indomani del
ritrovamento del cadavere mi facevo schifo. L’ho saputo dalla
televisione che l’avevano ucciso, ma io ero responsabile quanto i
compagni che l’avevano materialmente fatto. Eppure dovevo reagire.
Tua madre era morta da poco, tu avevi bisogno di me e proprio non
potevo permettermi di andare fuori di testa. Mi sono dato da fare per
dimenticare e per farmi dimenticare. Rita ci invitò per qualche
tempo nella sua villa vicino a Firenze. Mi sono convinto che lì
avremmo potuto iniziare a vivere. È per questo che l’ho sposata.
Non certo perché ero da sempre innamorato di lei come tua madre
credeva».
«Con
il passare degli anni continuavo a illudermi che un giorno mi sarei
svegliato e che tutto fosse solo un brutto sogno. Mi sono sentito
abbastanza sicuro fino al 1996. Poi durante il processo del ‘96 uno
dei testimoni presenti in via Fani quella mattina ha ripetuto che il
parabrezza del suo motorino fu colpito da una raffica di mitra
sparata dal motociclista seduto alle spalle del conducente di una
moto Honda di grossa cilindrata. L’Honda fu notata anche da un
agente di polizia che si trovava casualmente, e in borghese, in via
Fani».
«Hai
partecipato all’agguato di via Fani?», insisto io. Ma è come se
non mi ascoltasse.
«Tua
madre non sapeva niente, ma quando la mattina del 16 marzo, un paio
d’ore dopo l’attentato la vidi a via Fani, mi prese un colpo. Mi
chiese cosa ci facevo lì e io le mentii sostenendo che l’avevo
raggiunta dopo che al giornale mi avevano detto di averti mandata sul
posto del rapimento. Non so se ci ha creduto. Per questo voglio
leggere i suoi diari. Ora che li hai tu sto tranquillo. Non sapevo
che li avesse Daniele».
Io
li ho letti, ma forse non così attentamente. Non mi pare che ci sia
nulla di quello che mio padre ha sospettato in questi anni. A questo
punto deve esserci sicuramente una relazione se mia madre li ha
volutamente lasciati da Daniele.
«Durante
i giorni del sequestro ricordo che mi faceva domande molto
circostanziate. Poi si giustificava con la scusa che riflettere in
due su un determinato argomento potesse essere molto più proficuo».
«Perché
stavi a via Fani quel giorno, papà?».
«Dovevo
fare da copertura all’azione. Poi ci sono tornato per vedere come
era andata».
«Papà,
non riesco a capire nulla. Mi vuoi spiegare con calma quello che
accadde? Che ruolo hai avuto? Se c’entra qualcosa la morte di
mamma. Ti prego papà, è come se avessi ricevuto un colpo in testa e
tu stai fermo, davanti a me, senza aiutarmi…».
«Non
posso dirti nulla di più, principessa. Non posso». Papà si alza di
scatto, va in bagno. Sento l’acqua del rubinetto che scorre. Forse
si sta sciacquando la faccia. Torna da me come se niente fosse
accaduto. Eppure in un solo colpo sta riscrivendo la mia vita, quella
di mia madre, la nostra.
«Cosa
vuoi che ti prepari per cena?». Questa volta sono io a non
rispondere alla domanda. Torno all’attacco: «Non dirò nulla papà,
lo giuro. Non scriverò nulla. Né ne parlerò con qualcuno, nemmeno
con le zie o con Daniele. Ti prego.»
«Ci
devo pensare», prende tempo per poi continuare come se riflettesse
con se stesso. «C’è qualcuno che non vuole che certe cose vengano
fuori. Come spiegarsi altrimenti la mia estraneità a tutti i
processi, alle inchieste, e perfino alle supposizioni dei
giornalisti…»
«Io
ho il diritto di sapere, tu sei mio padre. A maggior ragione se
ritieni che questa storia in qualche modo sia coinvolta la mamma».
Papà
inizia a preparare da mangiare. Io ho la nausea. E poi rabbia,
delusione, amarezza, incredulità, senso di soffocamento. Gli squilla
il telefonino. È la stronza.
«Come
stai?», le chiede con un’irritante dolcezza.
Mi
viene da vomitare. Esco sulla veranda per respirare l’aria della
sera. C’è uno splendido tramonto a Ventotene. A mia madre piaceva
tanto aspettarlo sulle scalette a strapiombo della spiaggia di Parata
Grande. Me lo ricordo benissimo. Ecco ora vorrei tornare indietro nel
tempo, rivivere quegli spensierati giorni di vacanza trascorsi
insieme. Vorrei farmi coccolare come lei faceva sempre la sera quando
mi leggeva la favola per farmi addormentare o la mattina quando mi
portava la colazione a letto. Quella mezz’ora di baci e carezze mi
davano la forza per affrontare la giornata. Ne ho bisogno anche ora.
Ho bisogno di essere forte perché non so più chi è quell’uomo
che sta lì in cucina. Come ha potuto mio padre passare la sua vita
conservando un segreto così grande? Come ha potuto sopravvivere al
dolore immenso che ha provocato la morte di mia madre sposandosi con
un'altra? È un mostro.
«Vado
a dormire, non ho fame», gli dico rientrando in casa. Lui sta ancora
al telefono, mi fa segno di no con il dito. Ma io faccio finta di non
vederlo. Mi butto sul letto e quando bussa alla porta faccio finta di
dormire. Entra ugualmente. Mi accarezza la fronte, mi bacia, prende i
diari e se ne torna in cucina. Accende la tv.
Nel
letto cerco di raccogliere i pensieri. Ha parlato di via Fani. Cosa
c’è di ancora non scoperto di quel giorno? Prendo il portatile e
inizio una ricerca che mi spaventa. Scrivo sul motore di ricerca: via
fani + honda. Trovo 722 pagine in italiano, 5670 nel web. Apro
qualche link a caso.
Su
uno trovo: «È evidente che ancora oggi, a distanza di trent’anni,
non si sa per certo quanti fossero i brigatisti che componevano il
commando che agì in via Fani. Perfino i brigatisti che ne facevano
parte non sono stati concordi nel numero. Moretti in un’intervista
a Carla Mosca ha anche sbagliato i nomi e poi si è corretto: la
memoria negli anni non è più la stessa… in cose così marginali…
Il problema del numero dei partecipanti non è certo secondario,
visto che c’è il sospetto di partecipazioni “esterne”. Inoltre
ci sono ben tre testimoni che parlano di una moto Honda presente sul
luogo della strage, con due uomini a bordo. Uno dei testimoni,
l’ingegner Alessandro Marini, che arrivava sul suo motorino, si era
visto addirittura sparare una raffica di mitra contro, dall’uomo
seduto sul sellino posteriore della Honda. I brigatisti però negano,
tutti: non c’era nessuna moto, in via Fani».
Poi
quest’altro. Più lungo.
«L’organizzazione
di quest’azione era pronta per il 16 mattina come uno dei giorni
probabili in cui sarebbe potuto o sarebbe anche potuto non passare
l’onorevole Moro, perché non c’era certezza, perché avrebbe
anche potuto fare un’altra strada. Era stato verificato che passava
lì da alcuni giorni, ma non era stato verificato che passasse lì
sempre». Così, davanti alla Corte d’assise d’appello di Roma,
Valerio Morucci, uno degli esecutori materiali del sequestro Moro,
inizierà il racconto di quel 16 marzo 1978. In effetti, come
confermato dagli agenti di scorta in turno di riposo quel giorno, il
percorso che passava per via Mario Fani era uno dei più frequenti,
ma non l’unico: poteva anche essere cambiato sul momento per motivi
di sicurezza ma anche in funzione del traffico o di impegni
improvvisi. In Commissione d’inchiesta Eleonora Moro, vedova del
presidente democristiano, dirà anzi che negli ultimi tempi Moro e la
scorta «si angosciavano enormemente su queste cose e, quindi,
cercavano nei limiti del possibile di cambiare i percorsi tutti i
giorni o ogni due giorni, di vedere di sistemare in qualche modo
cambiamenti degli orari se era possibile». L’elementare, cruciale
domanda che ne deriva è dunque: «come potevano essere le Brigate
Rosse così sicure che quel giorno, a quell’ora in quel punto,
l’onorevole Moro sarebbe passato?» Eppure, l’agguato era stato
pianificato con ragionevole certezza proprio il 16 marzo e proprio in
via Fani: Quella mattina, alla Camera dei Deputati, era previsto il
dibattito sulla fiducia al IV governo Andreotti, detto di
“solidarietà nazionale”, della cui nascita Aldo Moro era il
massimo artefice. Per la prima volta dal 1947, il governo poteva
contare sui voti determinanti del Partito Comunista. Tale
concomitanza difficilmente può essere considerata un caso.
Nella
notte tra il 15 e il 16, in tutt’altra zona di Roma, erano state
tagliate le gomme del furgone con cui il fioraio Antonio Spiriticchio
ogni mattina di recava a vendere fiori all’angolo tra via Fani e
via Stresa, cioè proprio nel punto dell’attentato. I “vandali”
volevano evidentemente evitare intralci all’azione prevista la
mattina seguente.
Al
processo d’appello la brigatista Adriana Faranda dirà di avere
saputo della data fatidica due-tre giorni prima, e che i “regolari”
del Nord, partecipanti all’azione di via Fani, giunsero a Roma il
giorno precedente. Valerio Morucci, a sua volta, dichiarerà che
furono rimproverati coloro che erano stati incaricati del furto delle
auto, perché tre giorni prima del 16 marzo non era stata ancora
procurata la Fiat 132 che doveva servire per il trasporto del
sequestrato da via Fani. Il brigatista Antonio Savasta confermerà
che il “commando” andò per la prima volta “operativo” in via
Fani proprio il 16 marzo, il che dimostra che i preparativi furono
affrettati per poter compiere l’azione criminosa quel giorno.
Appena
dopo le ore 9 del 16 marzo, all’incrocio tra via Fani e via Stresa
nella zona di Monte Mario a Roma, una Fiat 128 bianca con targa
diplomatica frena bruscamente all’altezza dello stop. Le due auto
provenienti da dietro, una Fiat 130 blu con a bordo il presidente
della DC Aldo Moro e un’Alfetta bianca di scorta, non riescono ad
evitare il tamponamento a catena, anche perché le luci di stop della
128 erano state manomesse. L’autista della 130, l’appuntato
Domenico Ricci intuisce la trappola e cerca ripetutamente di fare
marcia-avanti e marcia-indietro per guadagnare un varco su via
Stresa, ma è troppo tardi. Il capo del commando, Mario Moretti,
scende dalla 128 e comincia a far fuoco sulla 130;
contemporaneamente, la 130 e l’Alfetta sono investite dal fuoco di
fucili mitragliatori di almeno 4 uomini travestiti da piloti che
sbucano dalle siepi del palazzo di fronte. Poi, con una calma quasi
surreale visto quello che è appena successo, Aldo Moro viene
prelevato dalla 130 e fatto salire su una 132 che si allontana
preceduta e seguita da due 128.
La
dinamica dell’agguato, insieme a ciò che avvenne nei minuti
precedenti e successivi, è stata ricostruita in cinque processi
sulla base delle prove, dei riscontri balistici e delle
dichiarazioni rese dai brigatisti e dai testimoni. Nonostante
ciò, numerosi sono ancora i punti non chiariti. Quanti furono e
chi furono i componenti del commando che attuò la strage di via
Fani? Non sarà mai stabilito con certezza. La sentenza del processo
di primo grado in Corte d’assise, sulla base di tutte le
testimonianze, stabilirà la presenza di 14 terroristi tra via
Fani e via Stresa; i brigatisti invece, tra ripensamenti, aggiunte e
sottrazioni, hanno sempre dichiarato un numero non superiore a 10.
Dei 91 bossoli recuperati sul posto, ben 49 appartengono ad una
stessa arma, 22 ad un’altra ed il resto alle altre quattro armi
usate nell’operazione: chi esplose da solo quei 49 colpi? Gli
sparatori, che si suppone si conoscessero tra loro, indossavano
divise da piloti civili. I brigatisti diranno di esser ricorsi al
travestimento per non dare nell’occhio, in quanto nella zona di via
Fani abitavano parecchi piloti dell’Alitalia. L’accorgimento
però sembra quantomeno singolare: nel momento della fuga le divise
sarebbero diventate pericolosi segni di riconoscimento. Allora perché
rendersi così riconoscibili? Forse perché non tutti i brigatisti si
conoscevano tra loro?
Chi
erano i due motociclisti a bordo della moto Honda blu di grossa
cilindrata che fu vista transitare subito dopo l’agguato, e da cui
partirono alcuni colpi di mitra verso un testimone? La presenza della
moto, sempre ufficialmente negata dai brigatisti, è avvalorata da
numerose testimonianze: che si trattasse di un intervento inatteso o
indesiderato sulla scena dell’agguato, da parte di brigatisti non
regolari o comunque di entità estranee?
Eliminata
la scorta e rapito Moro, il commando si dileguò nel traffico di Roma
con tre automobili: una Fiat 132 con il sequestrato e due Fiat 128.
Incoerente, a tratti del tutto inverosimile appare il racconto dei
brigatisti sulla fuga da via Fani, il primo trasbordo del sequestrato
in un furgone, il secondo trasbordo in un’altra auto e infine
l’arrivo al covo-prigione di via Montalcini 8 alla Magliana, a
trenta chilometri dal luogo della strage, dove Moro sarebbe stato
tenuto per tutti i 55 giorni del sequestro. Ancor più incredibile è
la beffarda modalità di ritrovamento delle tre macchine usate per la
fuga. Furono trovate “a rate”, il 16, il 17 e il 19 marzo, in via
Licinio Calvo, alla Balduina, non lontano da via Fani. Difficile
pensare che chi le abbandonò fosse disposto ad avventurarsi per Roma
con automobili segnalatissime e ricercatissime: forse poteva contare
su una base logistica mai individuata nei dintorni?
Nella
zona di via Fani, subito dopo il rapimento, un black out interruppe
le comunicazioni telefoniche impedendo le prime fondamentali
telefonate di allarme e coprendo di fatto la fuga dei terroristi. Per
la SIP il black out fu dovuto al sovraccarico delle chiamate; per i
brigatisti ad alcuni “compagni” che lavoravano nella compagnia
telefonica. Nessuno ha però finora spiegato come mai il giorno prima
(15 marzo, alle 16:45) la struttura della SIP collegata al SISMI
fosse stata messa in stato di allarme come doveva accadere in
situazioni d’emergenza quali crisi nazionali e internazionali,
eventi bellici e atti di terrorismo.
Quella
mattina, verso le 9, il carrozziere Gherardo Nucci fece un salto a
casa, in via Fani 109, a prendere la macchina fotografica: doveva
mandare alle compagnie assicurative le foto di alcune automobili da
riparare. Subito dopo la strage e prima ancora dell’arrivo di
polizia e ambulanze, dal suo balcone Nucci riuscì a scattare alcune
foto della scena della strage. L’indomani la moglie, una
giornalista dell’agenzia ASCA, consegnò il rullino al magistrato
inquirente Luciano Infelisi. Le foto sparirono: non se ne seppe più
nulla?».
Già.
Chi era il personaggio ritratto nella foto? Ed era veramente mio
padre il misterioso terrorista sulla moto? Lui era alla guida o era
quello che ha sparato la raffica di mitra? Devo essere arrabbiata con
lui? Lo devo mandare via di casa? Devo rompere ogni tipo di rapporto?
Il
sonno prende il sopravvento.
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