È
orribile. Non si può ammazzare così un ragazzo. Saverio aveva solo
23 anni. Le guardie hanno giocato al tiro a segno con i candelotti
lacrimogeni e hanno centrato in pieno Saverio. Poteva essere una
strage. Stavamo sfilando per le vie di Milano e ci hanno caricato. Un
giornalista è stato colpito da un proiettile. Hanno detto che
Saverio si è sentito male ed è morto. Ma non è vero. L’hanno
ucciso. Assassini. BASTA BASTA BASTA. 12 dicembre 1970
Io
non avevo neanche sei mesi e probabilmente mia madre mi aveva
lasciata a Roma con papà per partecipare a questa manifestazione.
Cerco su internet qualche informazione su quell’anniversario
tragico della strage di piazza Fontana. Scopro che il corteo era a
rischio. E lo sapevano tutti. Quel pomeriggio nel centro di Milano
erano in programma quattro manifestazioni. Due erano autorizzate:
quella del Movimento studentesco che aveva organizzato un sit-in
antifascista nei pressi della Statale e quella dell’Associazione
nazionale partigiani d’Italia per protestare contro le condanne a
morte inflitte ad alcuni militanti baschi dal regime franchista al
termine di un processo svoltosi a Burgos in Spagna. Il comizio in
piazza del Duomo organizzato dai circoli anarchici in occasione del
primo anniversario della strage di piazza Fontana e della morte di
Giuseppe Pinelli e l’adunata in piazza San Carlo dei gruppi del
neofascismo cittadino legati al Msi erano invece state vietate dal
questore per “motivi d’ordine pubblico”. Al termine del comizio
gli anarchici si sono mossi in corteo e la polizia, agli ordini del
vicequestore Vittoria, li ha caricati alle spalle per spingerli verso
l’Università Statale presidiata dal Movimento Studentesco. Nel
frattempo alcuni squadristi iniziarono a lanciare molotov contro la
sede dell’associazione Italia-Cina e da piazza San Babila numerosi
fascisti si diressero verso la Statale. Le cariche proseguirono per
un bel po’. Gli studenti volevano difendere la loro postazione
mentre la polizia cercava di rompere i cordoni di protezione. Nel
corso degli scontri in via Larga, Saverio Saltarelli, uno studente di
23 anni, venne ucciso da un candelotto lacrimogeno sparato ad altezza
d’uomo. Le prime versioni ufficiali sulla sua morte parlarono di
“malore” e poi di “collasso cardiocircolatorio”. Dopo
l’autopsia, di fronte all’evidenza dei fatti, ammisero che il
cuore di Saltarelli fu spaccato da un “artificio lacrimogeno”.
Dopo sei anni il comandante del reparto da cui partì il candelotto
mortale, fu condannato per omicidio colposo a 9 mesi con la
concessione delle attenuanti generiche, la sospensione condizionale e
la non menzione1.
Mia
madre rimase profondamente scossa da ciò che accade durante quella
manifestazione. Si vede perché a questo punto ha interrotto di
scrivere sul diario. Nelle pagine successive ci sono soprattutto
articoli ritagliati. C’è il manifesto pubblicato da Umanità Nova
dopo gli scontri in cui morì Saltarelli sopra al quale ha annotato:
«è
stato oggetto di attenzione da parte della procura della repubblica
di Roma, che vi ha trovato “giustificazioni sufficienti” per far
scattare il famigerato codice Rocco: “notizie atte a turbare
l'ordine pubblico”. Il sistema borghese italiano si qualifica
sempre meglio: anziché incriminare i responsabili delle violenze
poliziesche e della morte del povero studente, si perseguono coloro
che denunciano la violenza e il sopruso».
Poi
c’è un articolo staccato da “A”, di Guido Montana datato
aprile 1971: “Valpreda è innocente”.
«L’istruttoria
contro Valpreda non è solo sostanzialmente assurda, politicamente
pazzesca e giuridicamente inconsistente, ma anche formalmente
contraddittoria e illogica. Scrive Wittgenstein: “Pensate gli
strumenti della cassetta di un operaio: ci sono martello, pinze,
sega, cacciavite, regolo, barattolo, colla, chiodi e viti. Le
funzioni delle parole sono così diverse come le funzioni di questi
oggetti”. Non ho citato senza ragione il filosofo del
neo-positivismo logico. Ad onta della retorica degli uomini di legge,
le parole hanno un senso inequivocabile, sono strumenti per conoscere
la verità. Ma quante parole sono a tal fine realmente utilizzabili,
nei diciassette volumi (10 di atti e 7 di allegati) che il 26
settembre 1970 gli uscieri romani hanno depositato in cancelleria? Il
processo verbale del caso Valpreda consta di migliaia e migliaia di
pagine. In moneta sonante, fotocopiare l’intera istruttoria
comporta la spesa di circa 3 milioni di lire.
«L’imputato
povero è sistemato», scrive ancora Montana, «dovrà affidarsi al
buon cuore dello Stato, per prendere semplicemente conoscenza di ciò
che lo Stato stesso ha preparato contro di lui. In quest’oceano
cartaceo di parole inutili e di tortuosa sintassi leguleia, la verità
sulla strage di Milano rischierebbe di affondare irrimediabilmente,
se alla fine la parola inequivocabile, logica, non venisse incontro
all’imputato come un’ancora di salvezza. Rappresenta per lui lo
strumento razionale affinché “il sonno della ragione (in questo
processo) non generi mostri” e Valpreda eviti di divenir vittima di
una cavillosa e ingiusta procedura. In realtà si resta allibiti
dinnanzi alla compunta sicurezza degli inquirenti, quando parlano di
prove o comunque di serissimi indizi. Noi, al contrario, ci
proponiamo di dimostrare che, solo a condizione di capovolgere il
senso logico dei fatti, si potrebbe giungere a una convinzione di
colpevolezza degli imputati».
Le
ultime quattro righe sono sottolineate più volte. E sul bordo mia
madre ha scritto CONTROINFORMAZIONE. Continuo a leggere nonostante
abbia un vuoto allo stomaco. Dovrei andare a prepararmi un panino, ma
non riesco a smettere.
«A
lume di logica, la difesa degli imputati è implicita nelle stesse
parole della pubblica accusa, che nell’intento di accusarli, in
realtà ne conferma implicitamente l’innocenza. La montagna di
parole», insiste A, «dopo avere partorito il suo bravo topolino, si
sfalda a causa delle sue stesse contraddizioni logiche. Per
dimostrare questo, non è necessario svolgere ipotesi più o meno
credibili; basta ricondursi all’oggettività delle parole.
Innanzitutto, consideriamo la figura del principale imputato. Dunque,
Pietro Valpreda, per l’accusa, è colpevole: è anarchico, quindi
predisposto - secondo il P.M. - alla violenza, alle bombe. A parte il
fatto che la violenza e il tritolo sono prerogativa innanzitutto dei
fascisti, e di questo si è avuta ampia dimostrazione in questi
ultimi tempi, non si vede perché un anarchico violento, dinamitardo
come sarebbe il Valpreda, perdesse il suo tempo (e molti chili di
peso) a fare sciopero della fame davanti al palazzo di giustizia a
Roma, per protestare contro l’ingiusta detenzione preventiva di
giovani compagni imputati dell’attentato alla Fiera di Milano. Un
anarchico carico d’odio e di bombe (secondo la tesi cara alla
pubblica accusa) non passa i suoi giorni e le sue notti all’addiaccio
nutrendosi di acqua pura e di vitamine».
«C’è
inoltre da osservare che un attentatore incallito, come sarebbe il
Valpreda», fa notare Montana, «non agirebbe nel modo idiota in cui
avrebbe agito, se realmente le bombe alla banca dell’agricoltura
fosse stato lui a mettercele, e non i fascisti e gli agenti dei
servizi segreti come noi supponiamo. Se fosse realmente colpevole,
avrebbe mancato alla regola principale di ogni dinamitardo: quella di
operare nell’ombra, in modo anonimo, senza mettersi in vista né
dare spettacolo di sé. Valpreda si è “esibito”, al contrario,
per giorni e giorni, lo hanno fotografato in tutte le guise assieme
ai suoi giovani compagni, favorendo così la crescita dell’archivio
fotografico che lo riguarda nelle redazioni dei giornali e
presumibilmente, in quello della squadra politica. Ora, un
atteggiamento simile, da parte di chi si prepara a compiere una
strage di pacifici cittadini, è certamente assurdo e si
giustificherebbe soltanto con la follia del protagonista. Ma il
Valpreda è mentalmente sanissimo, secondo la perizia».
«La
nostra opinione, su questo punto, è meno cervellotica di quanto non
si immagini. In realtà, l’esibizione del personaggio Valpreda
dimostra solo una cosa: lo sciopero della fame, le proteste, ecc. -
legittime per qualunque altro cittadino - non lo sono per un
anarchico, che così facendo si espone alla cupidigia di provocazione
del potere costituito, di gruppi reazionari alla ricerca di capri
espiatori. Mi spiego: se un gruppo di anarchici fa un’azione
clamorosa, che diviene centro di attenzione per l’opinione
pubblica, se protestano contro il sistema, contro lo stato, ecc., ciò
vuol dire che per il perbenismo ognuno può aspettarsi tutto da loro,
persino un attentato. E quando ciò accade, nessuno se ne meraviglia.
Questo vuol dire che un’eventuale provocazione, diciamo pure un
complotto, organizzato da tutt’altra parte, può trovare subito
pronte delle vittime, dei “colpevoli” da additare all’opinione
pubblica e consegnare, senza eccessive proteste, alle forze
repressive dello stato. Noi dimostreremo che i “congiurati” della
destra, e probabilmente gli stessi professionisti del crimine di
stato, anche stranieri, hanno prescelto un gruppo di anarchici
semplicemente per precostituire degli imputati per un delitto
commesso invece da loro stessi. E hanno prescelto Valpreda e i suoi
compagni, perché in quel momento essi rappresentavano il gruppo più
battagliero, più irrequieto, più disponibile alla protesta
clamorosa, esemplare. A questo proposito, quando il pm parla di
“azione esemplare” teorizzata dal gruppo, evidentemente confonde
la protesta clamorosa ma pacifica con l’uso della dinamite. Quando
cita lo slogan “La prassi nasce dalla azione”, quasi a prova
“ideologica” della loro colpevolezza, dimostra tra l’altro una
notevole ignoranza del pensiero anarchico. La prassi, cioè il
comportamento, i modi di intervento nella vita sociale, politica,
ecc., sono in effetti il risultato della concreta esperienza, e cioè
dell’azione. Solo in questo senso deve essere interpretata la frase
“incriminata”. Ma il pm, per comodità dialettica, rovescia il
pensiero e in pratica dice: la prassi anarchica nasce dall’azione;
quindi più l’azione è violenta, distruttiva, più la prassi e il
comportamento sono anarchici. Così giunge alla facile e
semplicistica conclusione che una bomba è la migliore dimostrazione
dell’anarchia!».
La
parte che segue è piena di rimandi. Ai bordi ci sono diversi numeri
cerchiati, come si trattasse di note. Prima di continuare a leggere
vado in cucina. Ho fame. Apro il frigorifero e prendo un barattolo di
olive che mi ha regalato Salvatore, il mio amico pescatore. Me ne
torno sulla poltrona, non prima però di essermi fermata davanti alla
finestra ad ammirare il maestoso carcere di santo Stefano illuminato
dagli ultimi raggi di sole.
«Vediamo
ora la questione del circolo XXII Marzo», prosegue l’articolo. «La
storia di questo gruppo è abbastanza nota e singolare. Alcuni
giovani anarchici che frequentavano il circolo romano “Bakunin”,
cominciarono a dissentire politicamente da esso, finché non
costituirono un altro circolo. Il pm, soprattutto dopo la
pubblicazione di “Strage di stato”, è giunto alla conclusione
che in effetti fu il Merlino a condurre il gioco, nell’intento di
costituire un centro di provocazione. Il Merlino, ex-fascista
mascherato da anarchico, in realtà attivista dei gruppi di destra e
del sottobosco neofascista, era collegato ad alcuni elementi
provocatori, come per esempio Stefano Delle Chiaie (detto il
“Caccola”), il quale - particolare curioso ma significativo -
dopo essere stato convocato dal giudice istruttore quasi a chiusura
dell’istruttoria, accusato di reticenza sui rapporti col Merlino,
si rendeva latitante durante un intervallo dell’interrogatorio...
con la scusa di dover andare al gabinetto. Il fatto che Merlino fosse
probabilmente l’ispiratore dell’operazione “22 Marzo” non
prova assolutamente che i suoi compagni ne fossero consapevoli.
Secondo il pm, poiché Merlino era un noto provocatore (noto, ora, al
pm, non agli anarchici!), la posizione dei coimputati si
aggraverebbe, in quanto sarebbe dimostrata la concordanza esistente
tra i vari aderenti al gruppo, riguardo alla prassi operativa, e cioè
alla violenza».
«A
parte che c’è violenza e violenza», puntualizza Montana, «tale
convinzione dei pm è strabiliante, solo se si pensi che il Merlino
fu fermato la sera del 12 dicembre, che fu il primo a subire
l’interrogatorio in questura e ad accusare i compagni, per
dimostrare che non già lui bensì costoro erano i veri ispiratori e
istigatori degli attentati. Dunque, la pubblica accusa, mentre da una
parte accetta la tesi che Merlino fosse l’istigatore e l’ispiratore
del gruppo, dall’altra ritiene attendibile le accuse del Merlino
stesso contro i suoi compagni, che dimostrerebbero l’esatto
contrario: non lui ma gli altri avrebbero ispirato e “istigato”
all’attentato dinamitardo. Il che è una vera e propria
contraddizione in termini, un bisticcio logico di cui solo il pm
possiede la chiave per venirne a capo. Infatti delle due l’una: o
il pm crede realmente a un Merlino istigatore, e allora in questo
caso deve giudicare inattendibili le sue dichiarazioni contro gli
altri imputati quali “istigatori” e “organizzatori”; o crede
invece alle dichiarazioni del Merlino, e allora costui, non è più
l’ispiratore, l’istigatore, ecc., e poiché non vi sono né prove
né accuse contro di lui, nemmeno da parte dei suoi ex-compagni,
dovrebbe essere prosciolto dall’accusa di concorso in strage. Su
quali elementi il pm basa la colpevolezza del Merlino? Sul fatto che
sarebbe l’ispiratore, lo stratega lucido, diabolico dell’attentato.
Ebbene, in questo caso le accuse di Merlino contro Borghese, Mander,
ecc., sono logicamente false. Costoro non possono averlo sollecitato
a partecipare agli attentati e soprattutto non possono averne
ottenuto un rifiuto (come ha dichiarato il Merlino). Avrebbe
rifiutato ciò che egli stesso istigava gli altri a fare? E i suoi
compagni, si sarebbero dunque lasciati “ispirare” dal Merlino,
quando lui stesso si rifiutava? Non ha senso, e il pm dovrebbe
convincersene. La logica vuole che Merlino non poteva né rifiutare,
né tanto meno ispirare, ma solo provocare, come in effetti sembra
aver fatto. E la prova della provocazione - cosciente o no, da parte
del Merlino, non sappiamo - è data dal fatto che Merlino è stato
interrogato per primo. Dunque, la base dell’inchiesta contro il “22
Marzo” si è costituita, è anzi stata provocata dalle risposte da
lui date agli inquirenti, e cioè sin dal primo momento delle
indagini. Ma se le dichiarazioni di Merlino sono inattendibili, tutta
l’istruttoria Valpreda - 22 Marzo ha un vizio d’origine, sul
quale non è lecito sorvolare».
«Chi
aveva interesse agli attentati del 12 dicembre 1969?»,
si chiede mia madre all’inizio di questa parte dell’articolo.
Poi scrive sul bordo: La
strage di piazza Fontana è parte di un piano finalizzato a
respingere le lotte sociali in atto e a buttare i socialisti fuori
dal governo, ripristinando una coalizione centrista aperta all’Msi.
A ciò sarebbe dovuto seguire un colpo di stato tipo greco2.
Alla
fine dell’articolo c’è annotato a matita che la moglie di
Pinelli, Lucia, ha denunciato Calabresi e tutti gli agenti (i
poliziotti Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Piero
Mucilli, e il tenente dei carabinieri Savino Lograno), visto che
erano presenti ai vari interrogatori cui fu sottoposto il marito fra
il 12 ed il 15 dicembre ‘69. La denuncia era per omicidio
volontario: il giudice istruttore è Gerardo D’Ambrosio, che manda
avvisi di reato a tutti i denunciati.
Mia
madre poi scrive: La
pista anarchica è stata costruita già prima dell’attentato dalla
polizia e da Avanguardia nazionale, che aveva infiltrato Merlino a
Roma, e Lotta di popolo che aveva infiltrato Nino Sottosanti, il
sosia di Valpreda, tra gli anarchici milanesi. Non si tratta si un
attentato contro il sistema, ma del sistema perché non mirava a
destabilizzarlo, ma a consolidarlo.
Sulla
pagina seguente annoti che: Il
21 ottobre è stata riesumata la salma di Pinelli. Sul collo hanno
riscontrato una ecchimosi di cm 6x3 presumibilmente provocata da un
colpo di karaté (metodo usato dalla polizia) sicuramente precedente
alla caduta. Vengono fatte prove con un manichino che escludono
completamente il suicidio. Allora chi è stato a buttarlo di sotto?
Le
pagine che seguono sono niente altro che una cronologia degli
avvenimenti di quei mesi. Scrive dello sciopero generale per il
diritto alla casa proclamato da Cgil CISL Uil; del giudice istruttore
di Treviso Giancarlo Stiz che spicca mandati di cattura contro i
neonazisti padovani Franco Freda, Giovanni Ventura e Aldo Trinco per
le bombe del 1969; dell’assalto fascista all’università Statale
di Milano. Poi a novembre, il 24, registra che a Milano, polizia e
carabinieri intervengono contro una manifestazione del Movimento
Studentesco all’università Statale: 72 feriti, 11 arrestati e 275
denunciati.
Si
segna perfino che il 24 dicembre Giovanni Leone è eletto presidente
della Repubblica con i voti determinanti del Msi. L’anno nuovo, il
1972 si apre nel suo diario con l’arresto, il 3 marzo di Pino
Rauti, fondatore del gruppo neonazista “Ordine Nuovo”, con
l’accusa di ricostituzione del disciolto partito fascista e di
corresponsabilità negli attentati del 1969. Sul bordo, scritto in
verticale, mamma ha annotato che Rauti, indiziato il 22 anche per la
strage di Piazza Fontana, è stato scarcerato il 24. Nel quaderno
trova spazio anche la prima azione rivendicata dalle Brigate rosse:
Idalgo Maciachini, dirigente della Siemens, è sequestrato per alcune
ore a Milano. E di seguito il dolore per la morte in carcere
dell’anarchico Giuseppe Serantini. Un dolore dovuto non soltanto
per l’assassinio in sé e per l’orribile sadismo di alcuni
poliziotti, quanto alla copertura che immediatamente gli assassini
hanno avuto dalle autorità e da quasi tutta la stampa.
Domenica
7 maggio alle ore 9.30 del mattino Giuseppe muore, e con perfetto
tempismo un funzionario della questura si precipita in Municipio per
ottenere l’autorizzazione a rimuovere il corpo, tentando così di
evitare il necessario esame medico, formalità decisamente scocciante
e che secondo i poliziotti di larghe vedute andrebbe eliminata per
non intralciare il “giusto compito delle forze dell’ordine”.
“Un giovane studente è stato ucciso”, scrivono i giornali. Ma la
notizia non fa scandalo: si tratta di un anarchico e per di più di
un figlio di genitori ignoti; i suoi assassini sono poliziotti e
figli di buona donna. Perciò la vicenda non finisce in prima pagina
e dopo un paio di giorni i giornali non ne parlano più. Intanto si
tesse la solita fitta rete di omertà, di reticenze mafiose, di
scaricabarili. E a tappare la bocca ai compagni di Serantini ci pensa
la polizia impedendo comizi, sequestrando volantini, incriminando.
Una sola cosa ha consolato i suoi compagni: quando la bara è apparsa
uscendo da una fredda sala d’obitorio, nessuna folla di borghesi e
piccolo-borghesi, accecati dalla disinformazione televisiva si è
istericamente accalcata per applaudire.
Note:
1
www.reti.invisibili.net,
scheda a cura di Alfredo Simone
2
«Il pm», c’è scritto sull’articolo di A,
«fa in pratica questo discorso: gli attentati maturarono nel
circolo “22 Marzo”, che sarebbe stato per lui una specie di
centro del tritolo, in cui confluirono elementi anarcoidi e un
“suggeritore” neofascista camuffato da anarchico (Merlino). Il
pm in sostanza ritiene che Merlino non prese parte alla esecuzione
materiale dell’attentato, non volendo probabilmente partecipare
alla fase più pericolosa del piano; gli sarebbe bastato “ispirare”
gli anarchici. L’indagine ha stabilito che Merlino, mentre
partecipava alle riunioni del circolo “Bakunin” e poi al “22
Marzo”, era in contatto col gruppo neofascista di Delle Chiaie.
Ciò è stato del resto ampiamente documentato dal libro “La
strage di Stato”; stupisce anzi il fatto che solo dopo l’uscita
del libro il pm e il giudice istruttore se ne accorgessero. Questo
servirebbe a dare una patina di credibilità alla tesi degli
“opposti estremismi”, che alla fine dell’istruttoria viene
accettata, per soddisfare le esigenze d’ordine della società
italiana e dei partiti. Ciò non soddisfa, però, l’esigenza di
obbiettività; soprattutto se si considera il diritto dell’imputato,
che dovrebbe sussistere indipendentemente dall’utilità politica
della tesi d’accusa. La sinistra istituzionalizzata sembra
d’accordo sulla piega presa dall’istruttoria Valpreda; evita
così di porsi la domanda sui motivi che hanno consentito al
“Caccola” di rendersi uccel di bosco con tanta facilità. In tal
modo l’aggancio diretto tra Merlino e i neofascisti viene
sottratto all’approfondimento della verità riguardante sia i veri
mandanti che i loro strumenti. La conclusione della requisitoria del
pm è infatti esplicita: è vero, ci sono dei colpevoli ancora
“ignoti”, che però sono dei complici, anziché dei mandanti.
Gli “opposti estremismi”, farebbero quindi parte solo di un
gioco pericoloso, criminale, senza alcuna responsabilità dei
vertici e di eventuali mandanti! L’establishment è salvo il
sistema assolto». Ancora sottolineature: «Una requisitoria di
questo genere sembra fatta apposta per mettere in pace la coscienza
dei benpensanti: Merlino, fascista e finto anarchico, ispiratore,
istigatore, ma non esecutore materiale degli attentati (con un po’
di fortuna se la caverebbe con una semplice condanna per istigazione
a delinquere); Gargamelli, esecutore materiale ma solo per
l’attentato meno grave (quello alla banca in cui lavorava suo
padre); Borghese, complice ma già giudicato seminfermo mentale,
nonostante il pm lo ritenesse il “cervello” degli attentati
romani! Il vero colpevole, il “mostro” da chiudere in un carcere
per tutta la vita, sarebbe dunque Valpreda, il massacratore di
innocenti, il bieco dinamitardo, il rottame umano che nessuno
potrebbe mai compatire o cercar di salvare. Valpreda: la vittima
designata da dare in pasto al perbenismo ipocrita e alle cosiddette
istituzioni democratiche».
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