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Capitolo 17

Non faccio in tempo a continuare i miei pensieri che mio padre piomba nella stanza già pronto per uscire. Mi infilo una maglietta pulita sopra i pantaloni di lino, metto il diario che stavo leggendo nella borsa. «Un attimo solo, cerco una felpa», dico rassegnata già immaginando la faticaccia che dovrò fare per ritornare su dalle scalette di Parata Grande.
«Andiamo a punt’Eolo», dice invece papà. Il cielo è carico di pioggia, ma c’è vento. Erano giornate come questa che tutti insieme andavamo a fare il picnic sugli scogli della villa di Giulia. Ci piaceva aspettare il temporale da quel punto estremo dell’isola. Ci piaceva vedere il mare mosso che s’infrangeva sulla costa. Contavamo i gabbiani sfaticati che sfruttavano le raffiche di vento per volare verso Santo Stefano. Godevamo di quel buon profumo che Eolo da bravo alchimista s’era inventato: un’essenza mista di salsedine, iodio, ginestre che spargeva nell’aria.
«Sono pronta», rispondo infilandomi la felpa con il cappuccio.
Ogni volta che mi arrampico verso punt’ Eolo mi dico che è troppo faticoso e che non ci ritorno più. Ma poi me lo dimentico e continuo a venire in questo posto magico.
«Che idea ti sei fatta?», chiede papà dopo un bel po’ che se n’è stato in silenzio, in contemplazione dell’orizzonte.
Non aspettavo altro. «Che importa quello che penso io? Voglio sapere da te la verità».
«La verità. La mia verità potrebbe non coincidere con quella degli altri. La verità, diceva Kafka, è viva e possiede pertanto un volto mutevole. Io posso raccontarti la mia storia, le mie emozioni, i miei dubbi. Ma la verità potrebbe essere un’altra e forse non la sapremo mai».
«A me interessi tu, papà, non gli altri. Io voglio capire cosa ti è successo, perché ti sei lasciato coinvolgere da quella follia collettiva che era la lotta armata. Cosa pensavi di ottenere», insisto cercando di fargli capire che non ho nessuna intenzione di giudicarlo.
«Pensavamo veramente di poter cambiare il mondo. Volevamo continuare la lotta dei partigiani che erano stati traditi, volevamo liberare il proletariato dalle catene che il potere ci aveva messo ai polsi e alla caviglie riducendoci di nuovo schiavi, sfruttati. Abbiamo imbracciato le armi per riprenderci la vita, la dignità. Ho creduto nel sogno della rivoluzione. Ci ho creduto davvero. Pensavamo che sequestrando il Presidente avremmo dimostrato che la sopportazione del proletariato era arrivata al limite. Eravamo convinti che le cose dovevamo cambiare in un modo o nell’altro. Forse stupidamente durante il sequestro ho pure creduto di poterlo convincere delle nostre ragioni. Da quello che raccontavano i compagni che entravano nella prigione pare non abbia mai detto una parola di odio nei nostri confronti, anzi. Sembrava capire le nostre rivendicazioni e stava prendendo coscienza di che razza di persone si era circondato. Il Presidente parlava del rispetto degli altri, dell’amore verso gli ultimi, del perdono, della solidarietà, della giustizia, dell’uguaglianza, del valore della vita. Mi sembrava un altro uomo rispetto all’idea che ci eravamo fatti di lui. Mi sembrava diverso da quello che parlava ai comizi o a Montecitorio. Quale dei due era il vero Presidente? Nel dubbio pensavo che si dovesse salvare. Dovevamo salvarlo. Anche lui ce lo chiedeva. Diceva che ucciderlo sarebbe stata una sciocchezza, che saremmo caduti nella trappola che la Dc e il Pci ci avevano teso. Loro sì che avevano più di un motivo per farlo fuori. Noi?».
«Però l’avete ucciso», dico io stizzita pensando a quanto dolore hanno provocato alla famiglia dell’onorevole Moro, alle famiglie degli uomini della scorta, alle famiglie stesse dei brigatisti.
«Sì. E il senso di colpa è insopportabile. Oggi come ieri».
«Possibile che non c’è stato modo per liberarlo?», insisto.
«Mercoledì 3 maggio in piazza Barberini Mario ha incontrato Valerio e Adriana per comunicargli la decisione di uccidere Moro. Anche loro erano contrari, ma non c’era più nulla da fare».
«Avete fatto tutto da soli? La Cia, il Kgb, il Mossad dei quali parlano molti libri non c’entrano nulla?», chiedo.
«Abbiamo fatto tutto da soli nella speranza di innescare una rivoluzione in Italia. L’indubbio successo militare del nostro attacco fu dovuto all’effetto sorpresa e all’impreparazione degli apparati repressivi di fronte a una tale, inaudita emergenza. Insomma, non ci fu alcun “grande vecchio” a gestire nell’ombra il sequestro. Sergio Flamigni insiste sui poteri occulti interessati a pilotare le Br, sino al tragico epilogo. Forse non tutto è così chiaro, forse ci fu qualche infiltrato nell’organizzazione, forse ci furono trattative mai venute alla luce, soprattutto per recuperare le carte del prigioniero, forse la sera del 9 maggio ‘78 molti nemici del Presidente non versarono troppe lacrime per il suo assassinio. Ma per quello che ne so io, abbiamo fatto tutto da soli. Le grandi narrazioni sono senz’altro più fascinose e seducenti dei fatti illuminati dalla loro cruda nudità. E la verità non è quasi mai all’altezza delle nostre aspettative».
Si accende una sigaretta papà, poi continua: «Man mano che gli aggiornamenti arrivavano, lo ammetto, prendevamo, prendevo coscienza che avevamo fatto un salto di qualità enorme. Sì, c’erano delle vittime, un bagno di sangue, è vero. Ma io ero soprattutto orgoglioso per l’azione militare pressoché perfetta portata a termine. Non ero triste e tanto meno disperato. Vivevo in stato confusionale, tra il sogno e la realtà. Un mese dopo via Fani, erano tanti quelli che condannavano l’accaduto, ma allo stesso modo non erano neppure pochi quelli che pensavano e sostenevano più o meno apertamente che le Brigate Rosse avevano ottenuto uno strepitoso successo. Io non vivevo in clandestinità e sentivo quello che la gente diceva. Tua madre sosteneva che le Br avrebbero vinto se avessero lasciato andare il Presidente. Ne ero convinto anche io: la sua esecuzione fu la nostra sconfitta. Sino al giorno prima, la possibilità che una guerra civile fosse alle porte era tutt’altro che improbabile. L’esecuzione a sangue freddo di un prigioniero ci fece perdere in un attimo quelle incontestabili e più o meno silenziose simpatie che ci eravamo conquistati anche nell’ambiente dei lavoratori: eravamo rivoluzionari che combattevano lo Stato Padrone».
«Eravamo una formazione armata che non nascose mai il suo credo ideologico e fece del terrorismo lo strumento per la realizzazione di obiettivi intermedi e fini ultimi costantemente annunciati. E l’avanguardia guerrigliera di un vasto movimento di contestazione che coinvolse interi strati della società italiana. Questo è il mio pensiero, anche per ciò che riguarda il sequestro del presidente. Lo rapimmo seguendo le nostre scelte ideologiche e le nostre dichiarate finalità, lo processammo e lo condannammo secondo il nostro codice, rientrando nella loro logica la stessa determinazione di eseguire la sentenza anche se dopo un aspro scontro interno. Escludo quindi che fossimo state eterodirette e che vi sia stato un Grande Vecchio. Ciò malgrado sono convinto, come moltissimi altri e di me più autorevoli, che sulla vicenda Moro si addensino zone di opacità che devono essere chiarite. Ma la storia non cambierebbe».
«Hai portato il diario, vero?», mi chiede interrompendo il discorso che stava facendo. Glielo do. Cerca una pagina in particolare e mi chiede di leggere ad alta voce.
«Qualche buona notizia arriva in questa Roma in stato di assedio. Le Br promettono che ci avrebbero fatto sapere tutto di 30 anni di regime democristiano comprese le stragi di Stato».
«Purtroppo non è stato così, papà. Le Br non ci hanno rivelato quasi nulla», gli dico interrompendo la lettura del diario di mamma. «Se il sequestro Moro ha fallito i suoi obiettivi è stato perché non è riuscito a porsi come avanguardia dello scontro coagulando attorno a sé frange disponibili del movimento. Perché le azioni delle Br non era al movimento che guardavano, ma al potere rappresentato dalla politica portata avanti congiuntamente da Dc e Pci col progetto di compromesso storico».
«Carla», riprendo a leggere io prendendogli il diario dalle mani, «dice che nei brigatisti lei non riesce a vedere compagni che sbagliano, ma parole ed azioni che, se prevalessero, ci avrebbero costretti a batterci con ogni mezzo contro di loro. Lotta Continua in questi giorni viene definito “il partito dei vescovi e della vita umana”, “l’organo degli amici dispersi di Aldo Moro”, il bollettino della “trattativa cinica e impossibile”. Denominazioni piene di sarcasmo e benedette dalle migliori, e peggiori, penne del giornalismo nostrano. “Moro non é morto” ha strillato a tutta pagina “Lotta Continua” mercoledì 19 aprile con un appello per la sua liberazione, firmato da una decina di personalità, tra cui Dario Fo e Franco Basaglia, l’appello ha raccolto in pochi giorni un successo inaspettato. Lo stanno sottoscrivendo in migliaia. In nome del “diritto alla tolleranza e alla liberazione d’un prigioniero”, corre veloce di mano in mano tra parrocchie periferiche, sezioni abbandonate, luoghi di lavoro. Ma finora questo referendum privo di quorum è rimasto totalmente inascoltato. Dagli uomini del Palazzo. Dagli uomini del covo.
I mitra di via Fani hanno inceppato la Rivoluzione. Il movimento era riuscito a riempire di cortei le piazze d’Italia. Aveva occupato scuole e Università, cacciato Lama, ingaggiato guerriglie lunghe un anno, aveva preso possesso di città sonnolenti, liberato energie creative fatte di onde radio, fogli ribelli, immaginazione antagonista, progettualità e decreti sulla “fine del regime del lavoro”.
A distanza di pochi mesi ecco però “le armi lunghe”, finora clandestine e marginali, hanno imposto la stella a cinque punte nelle assemblee e dell’espressività dell’anno scorso sembra essere rimasta solo una balbettante babele. “Non é né più alto né più basso” scrive “Rosso”: “Il rapimento Moro non ha nulla a che fare con l’autonomia”. Le BR, dicono i Volsci, ignorano l’iniziativa delle masse, il coinvolgimento del revisionismo nella crisi, “sembrano scopertamente indurre lo Stato ad una sua involuzione verso un fascismo moderno”. Per alcuni ecco “il senso ubriacante del grande balzo in avanti”, per altri “il pericolo di un’azione che, assieme allo Stato, disarticola l’intera classe”. Per gli operai dell’Alfa, invece, c’é solo il diritto a non spiegarsi “poiché la nostra differenza con loro é nelle cose che facciamo”. “Come comunisti rivoluzionari neghiamo la prassi dei regimi reazionari di emettere sentenze ed eseguire condanne in nome del popolo”».
«Tu eri un autonomo prima di entrare nelle Br?», chiedo a papà.
Non mi risponde subito. Prosegue il racconto di mia madre. «Il comunicato stampa dei Comitati Autonomi Operai venne divulgato il 5 maggio. Troppo tardi. Il tempo ormai trascorreva nemico verso l’epilogo di via Caetani.».
Prende fiato: «Io venivo dai Volsci e non mi sono mai considerato un terrorista, né dedito alla violenza cieca e non necessaria. Mi sentivo un guerrigliero rivoluzionario che insieme a tanti compagni stava portando avanti una battaglia nel nome del proletariato. E stavamo per vincerla».
Riprendo a leggere. 25 aprile 1978. In piazza Esedra alla nove c’è stato il concentramento del movimento delle scuole e dell’università. Sono arrivati anche quelli di Autonomia Operaia, ma Luca non c’è. Sullo striscione che apre il corteo c’è scritto: Contro il terrorismo di Stato delle Br – contro il regime della Dc e Pci. Qualcuno grida Curcio libero. Prendendo a pretesto una tentata deviazione del tragitto, la polizia carica. Ce l’hanno con gli Autonomi, è evidente. Un compagno dice perché sanno che a condurre il “processo” ad Aldo Moro, nella “Prigione del Popolo” non ci sono solo i brigatisti rossi, ma anche qualche dirigente dell’Autonomia Operaia. Non ci credo».
«Dopo la cacciata di Lama dall’università il Pci ci ha pubblicamente condannato». Papà si sente in dovere di giustificarsi. «Ci siamo sentiti traditi. Una parte dell’ala dura degli autonomi decise che era giunta l’ora di “alzare il livello dello scontro”, ossia di passare alla lotta armata. Da allora l’Autonomia si è avvicinata alle posizioni dei gruppi terroristici che si stavano formando. Molti entrarono in clandestinità, alcuni entrarono nelle Br, tanti altri nei NAP che agivano all’interno delle carceri, dove molti autonomi furono rinchiusi».
Mi sembra tutto così assurdo. «Mamma che diceva?», chiedo.
«Lei viveva in un mondo tutto suo. Diceva che una volta preso il potere anche i rivoluzionari cessano di essere tali per diventare amministratori. L’ho letto pure da qualche parte sul diario». Riesce subito a trovare la pagina alla quale si riferisce.
«Mai farei la lotta armata pur condividendo le motivazioni che hanno spinto tanti miei compagni a farlo. Se alle manifestazioni qualcuno usa la pistola non lo accetto, ma capisco e appoggio in tutto la rivolta contro un certo modo di gestire la società che non tiene conto della società stessa. Per me l’impulso è più forte delle regole, ma la compassione più potente della ragione. Io ho fiducia nell’uomo e l’umanità nuova sarà formata da coscienze capaci di autogoverno interiore e sociale in cui non avranno più posto gerarchie, autoritarismi, violenze. Se solo questo ottimismo, questa fiducia fosse anche quella dei terroristi…
Papà chiude il diario. Guarda in cielo. «L’umanità nuova, l’anarchia», dico io mentre mi viene in mente uno strano gioco che s’era inventata mia madre per me. L’aveva chiamato "l’anarciccia". Su un foglio aveva scritto che io ero una bambina fortunata perché libera di fare tutto quello che volevo, a condizione però che avessi rispettato la libertà degli altri, avessi aiutato chi aveva bisogno, avessi studiato perché solo la cultura rende liberi. Ogni volta che mi comportavo male perdevo dieci punti libertari, ma li potevo recuperare se facevo qualcosa per qualcuno in difficoltà. Per tutta la vita ho cercato di non perdere i suoi punti. Anzi ho provato ad accumularne sempre di più, perché così mi sentivo la sua "anarciccia". Forse può sembrare un gioco stupido, ma credo che mi abbia fortemente aiutato nella vita. Mi ha dato una base forte sulla quale costruire la mia personalità, il mio carattere.
Papà invece mi ha insegnato ad amare le cose belle. Lui era un gallerista, è un gallerista. Fin da piccola ho avuto modo di maneggiare opere d’arte, ho conosciuto artisti importanti, ho visto mostre che hanno fatto storia. Viaggiava tantissimo, per settimane non lo vedevamo, né lo sentivamo. Mamma mi diceva che stava fuori per lavoro e io ci credevo visto che ogni volta che ricompariva mi portava tanti regali. Però mia madre piangeva, a volte, la notte. Se glielo chiedevo mi diceva che papà le mancava. Zia Moira sosteneva che papà avesse un’altra. Mamma la chiamava "la stronza". Due anni dopo la sua morte lui se l’è sposata, ma io non le ho mai permesso di prendere il posto di mia madre. Piuttosto che stare con lei preferivo non vedere neanche mio padre e così ho vissuto per la maggior parte della mia adolescenza con le zie. Papà, però, ha sempre trovato il modo per non interrompere quel rapporto che avevamo. Di questo devo dargliene atto. S’inventava viaggi da fare solo con me, mi veniva a prendere a scuola e mi portava con lui in galleria, facevamo insieme i compiti, veniva a dormire da zia Carla quando ero malata. Ora so che non è stato facile neanche per lui. Aveva perso mamma e non poteva rischiare di perdere anche me. Lo abbraccio forte. Ho un nodo alla gola e ho voglia di piangere.
«Amore mio, ti chiedo scusa», dice papà. A questo punto non mi trattengo più. Le lacrime mi annebbiano la vista poi un pianto silenzioso e inarrestabile prende il sopravvento. Un lampo squarcia le nuvole. «Dobbiamo andare a casa prima che inizi il temporale», gli dico alzandomi in piedi tendendogli le mani per aiutarlo.

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