Non
faccio in tempo a continuare i miei pensieri che mio padre piomba
nella stanza già pronto per uscire. Mi infilo una maglietta pulita
sopra i pantaloni di lino, metto il diario che stavo leggendo nella
borsa. «Un attimo solo, cerco una felpa», dico rassegnata già
immaginando la faticaccia che dovrò fare per ritornare su dalle
scalette di Parata Grande.
«Andiamo
a punt’Eolo», dice invece papà. Il cielo è carico di pioggia, ma
c’è vento. Erano giornate come questa che tutti insieme andavamo a
fare il picnic sugli scogli della villa di Giulia. Ci piaceva
aspettare il temporale da quel punto estremo dell’isola. Ci piaceva
vedere il mare mosso che s’infrangeva sulla costa. Contavamo i
gabbiani sfaticati che sfruttavano le raffiche di vento per volare
verso Santo Stefano. Godevamo di quel buon profumo che Eolo da bravo
alchimista s’era inventato: un’essenza mista di salsedine, iodio,
ginestre che spargeva nell’aria.
«Sono
pronta», rispondo infilandomi la felpa con il cappuccio.
Ogni
volta che mi arrampico verso punt’ Eolo mi dico che è troppo
faticoso e che non ci ritorno più. Ma poi me lo dimentico e continuo
a venire in questo posto magico.
«Che
idea ti sei fatta?», chiede papà dopo un bel po’ che se n’è
stato in silenzio, in contemplazione dell’orizzonte.
Non
aspettavo altro. «Che importa quello che penso io? Voglio sapere da
te la verità».
«La
verità. La mia verità potrebbe non coincidere con quella degli
altri. La verità, diceva Kafka, è viva e possiede pertanto un volto
mutevole. Io posso raccontarti la mia storia, le mie emozioni, i miei
dubbi. Ma la verità potrebbe essere un’altra e forse non la
sapremo mai».
«A
me interessi tu, papà, non gli altri. Io voglio capire cosa ti è
successo, perché ti sei lasciato coinvolgere da quella follia
collettiva che era la lotta armata. Cosa pensavi di ottenere»,
insisto cercando di fargli capire che non ho nessuna intenzione di
giudicarlo.
«Pensavamo
veramente di poter cambiare il mondo. Volevamo continuare la lotta
dei partigiani che erano stati traditi, volevamo liberare il
proletariato dalle catene che il potere ci aveva messo ai polsi e
alla caviglie riducendoci di nuovo schiavi, sfruttati. Abbiamo
imbracciato le armi per riprenderci la vita, la dignità. Ho creduto
nel sogno della rivoluzione. Ci ho creduto davvero. Pensavamo che
sequestrando il Presidente avremmo dimostrato che la sopportazione
del proletariato era arrivata al limite. Eravamo convinti che le cose
dovevamo cambiare in un modo o nell’altro. Forse stupidamente
durante il sequestro ho pure creduto di poterlo convincere delle
nostre ragioni. Da quello che raccontavano i compagni che entravano
nella prigione pare non abbia mai detto una parola di odio nei nostri
confronti, anzi. Sembrava capire le nostre rivendicazioni e stava
prendendo coscienza di che razza di persone si era circondato. Il
Presidente parlava del rispetto degli altri, dell’amore verso gli
ultimi, del perdono, della solidarietà, della giustizia,
dell’uguaglianza, del valore della vita. Mi sembrava un altro uomo
rispetto all’idea che ci eravamo fatti di lui. Mi sembrava diverso
da quello che parlava ai comizi o a Montecitorio. Quale dei due era
il vero Presidente? Nel dubbio pensavo che si dovesse salvare.
Dovevamo salvarlo. Anche lui ce lo chiedeva. Diceva che ucciderlo
sarebbe stata una sciocchezza, che saremmo caduti nella trappola che
la Dc e il Pci ci avevano teso. Loro sì che avevano più di un
motivo per farlo fuori. Noi?».
«Però
l’avete ucciso», dico io stizzita pensando a quanto dolore hanno
provocato alla famiglia dell’onorevole Moro, alle famiglie degli
uomini della scorta, alle famiglie stesse dei brigatisti.
«Sì.
E il senso di colpa è insopportabile. Oggi come ieri».
«Possibile
che non c’è stato modo per liberarlo?», insisto.
«Mercoledì
3 maggio in piazza Barberini Mario ha incontrato Valerio e Adriana
per comunicargli la decisione di uccidere Moro. Anche loro erano
contrari, ma non c’era più nulla da fare».
«Avete
fatto tutto da soli? La Cia, il Kgb, il Mossad dei quali parlano
molti libri non c’entrano nulla?», chiedo.
«Abbiamo
fatto tutto da soli nella speranza di innescare una rivoluzione in
Italia. L’indubbio successo militare del nostro attacco fu dovuto
all’effetto sorpresa e all’impreparazione degli apparati
repressivi di fronte a una tale, inaudita emergenza. Insomma, non ci
fu alcun “grande vecchio” a gestire nell’ombra il sequestro.
Sergio Flamigni insiste sui poteri occulti interessati a pilotare le
Br, sino al tragico epilogo. Forse non tutto è così chiaro, forse
ci fu qualche infiltrato nell’organizzazione, forse ci furono
trattative mai venute alla luce, soprattutto per recuperare le carte
del prigioniero, forse la sera del 9 maggio ‘78 molti nemici del
Presidente non versarono troppe lacrime per il suo assassinio. Ma per
quello che ne so io, abbiamo fatto tutto da soli. Le grandi
narrazioni sono senz’altro più fascinose e seducenti dei fatti
illuminati dalla loro cruda nudità. E la verità non è quasi mai
all’altezza delle nostre aspettative».
Si
accende una sigaretta papà, poi continua: «Man mano che gli
aggiornamenti arrivavano, lo ammetto, prendevamo, prendevo coscienza
che avevamo fatto un salto di qualità enorme. Sì, c’erano delle
vittime, un bagno di sangue, è vero. Ma io ero soprattutto
orgoglioso per l’azione militare pressoché perfetta portata a
termine. Non ero triste e tanto meno disperato. Vivevo in stato
confusionale, tra il sogno e la realtà. Un mese dopo via Fani,
erano tanti quelli che condannavano l’accaduto, ma allo stesso modo
non erano neppure pochi quelli che pensavano e sostenevano più o
meno apertamente che le Brigate Rosse avevano ottenuto uno strepitoso
successo. Io non vivevo in clandestinità e sentivo quello che la
gente diceva. Tua madre sosteneva che le Br avrebbero vinto se
avessero lasciato andare il Presidente. Ne ero convinto anche io: la
sua esecuzione fu la nostra sconfitta. Sino al giorno prima, la
possibilità che una guerra civile fosse alle porte era tutt’altro
che improbabile. L’esecuzione a sangue freddo di un prigioniero ci
fece perdere in un attimo quelle incontestabili e più o meno
silenziose simpatie che ci eravamo conquistati anche nell’ambiente
dei lavoratori: eravamo rivoluzionari che combattevano lo Stato
Padrone».
«Eravamo
una formazione armata che non nascose mai il suo credo ideologico e
fece del terrorismo lo strumento per la realizzazione di obiettivi
intermedi e fini ultimi costantemente annunciati. E l’avanguardia
guerrigliera di un vasto movimento di contestazione che coinvolse
interi strati della società italiana. Questo è il mio pensiero,
anche per ciò che riguarda il sequestro del presidente. Lo rapimmo
seguendo le nostre scelte ideologiche e le nostre dichiarate
finalità, lo processammo e lo condannammo secondo il nostro codice,
rientrando nella loro logica la stessa determinazione di eseguire la
sentenza anche se dopo un aspro scontro interno. Escludo quindi che
fossimo state eterodirette e che vi sia stato un Grande Vecchio. Ciò
malgrado sono convinto, come moltissimi altri e di me più
autorevoli, che sulla vicenda Moro si addensino zone di opacità che
devono essere chiarite. Ma la storia non cambierebbe».
«Hai
portato il diario, vero?», mi chiede interrompendo il discorso che
stava facendo. Glielo do. Cerca una pagina in particolare e mi chiede
di leggere ad alta voce.
«Qualche
buona notizia arriva in questa Roma in stato di assedio. Le Br
promettono che ci avrebbero fatto sapere tutto di 30 anni di regime
democristiano comprese le stragi di Stato».
«Purtroppo
non è stato così, papà. Le Br non ci hanno rivelato quasi nulla»,
gli dico interrompendo la lettura del diario di mamma. «Se il
sequestro Moro ha fallito i suoi obiettivi è stato perché non è
riuscito a porsi come avanguardia dello scontro coagulando attorno a
sé frange disponibili del movimento. Perché le azioni delle Br non
era al movimento che guardavano, ma al potere rappresentato dalla
politica portata avanti congiuntamente da Dc e Pci col progetto di
compromesso storico».
«Carla»,
riprendo
a leggere io prendendogli il diario dalle mani,
«dice che nei brigatisti lei non riesce a vedere compagni che
sbagliano, ma parole ed azioni che, se prevalessero, ci avrebbero
costretti a batterci con ogni mezzo contro di loro. Lotta Continua in
questi giorni viene definito “il partito dei vescovi e della vita
umana”, “l’organo degli amici dispersi di Aldo Moro”, il
bollettino della “trattativa cinica e impossibile”. Denominazioni
piene di sarcasmo e benedette dalle migliori, e peggiori, penne del
giornalismo nostrano. “Moro non é morto” ha strillato a tutta
pagina “Lotta Continua” mercoledì 19 aprile con un appello per
la sua liberazione, firmato da una decina di personalità, tra cui
Dario Fo e Franco Basaglia, l’appello ha raccolto in pochi giorni
un successo inaspettato. Lo stanno sottoscrivendo in migliaia. In
nome del “diritto alla tolleranza e alla liberazione d’un
prigioniero”, corre veloce di mano in mano tra parrocchie
periferiche, sezioni abbandonate, luoghi di lavoro. Ma finora questo
referendum privo di quorum è rimasto totalmente inascoltato. Dagli
uomini del Palazzo. Dagli uomini del covo.
I
mitra di via Fani hanno inceppato la Rivoluzione. Il movimento era
riuscito a riempire di cortei le piazze d’Italia. Aveva occupato
scuole e Università, cacciato Lama, ingaggiato guerriglie lunghe un
anno, aveva preso possesso di città sonnolenti, liberato energie
creative fatte di onde radio, fogli ribelli, immaginazione
antagonista, progettualità e decreti sulla “fine del regime del
lavoro”.
A
distanza di pochi mesi ecco però “le armi lunghe”, finora
clandestine e marginali, hanno imposto la stella a cinque punte nelle
assemblee e dell’espressività dell’anno scorso sembra essere
rimasta solo una balbettante babele. “Non é né più alto né più
basso” scrive “Rosso”: “Il rapimento Moro non ha nulla a che
fare con l’autonomia”. Le BR, dicono i Volsci, ignorano
l’iniziativa delle masse, il coinvolgimento del revisionismo nella
crisi, “sembrano scopertamente indurre lo Stato ad una sua
involuzione verso un fascismo moderno”. Per alcuni ecco “il senso
ubriacante del grande balzo in avanti”, per altri “il pericolo di
un’azione che, assieme allo Stato, disarticola l’intera classe”.
Per gli operai dell’Alfa, invece, c’é solo il diritto a non
spiegarsi “poiché la nostra differenza con loro é nelle cose che
facciamo”. “Come comunisti rivoluzionari neghiamo la prassi dei
regimi reazionari di emettere sentenze ed eseguire condanne in nome
del popolo”».
«Tu
eri un autonomo prima di entrare nelle Br?», chiedo a papà.
Non
mi risponde subito. Prosegue il racconto di mia madre. «Il
comunicato stampa dei Comitati Autonomi Operai venne divulgato il 5
maggio. Troppo tardi. Il tempo ormai trascorreva nemico verso
l’epilogo di via Caetani.».
Prende
fiato: «Io venivo dai Volsci e non mi sono mai considerato un
terrorista, né dedito alla violenza cieca e non necessaria. Mi
sentivo un guerrigliero rivoluzionario che insieme a tanti compagni
stava portando avanti una battaglia nel nome del proletariato. E
stavamo per vincerla».
Riprendo
a leggere. 25
aprile 1978. In piazza Esedra alla nove c’è stato il
concentramento del movimento delle scuole e dell’università. Sono
arrivati anche quelli di Autonomia Operaia, ma Luca non c’è. Sullo
striscione che apre il corteo c’è scritto: Contro il terrorismo di
Stato delle Br – contro il regime della Dc e Pci. Qualcuno grida
Curcio libero. Prendendo a pretesto una tentata deviazione del
tragitto, la polizia carica. Ce l’hanno con gli Autonomi, è
evidente. Un compagno dice perché sanno che a condurre il “processo”
ad Aldo Moro, nella “Prigione del Popolo” non ci sono solo i
brigatisti rossi, ma anche qualche dirigente dell’Autonomia
Operaia. Non ci credo».
«Dopo
la cacciata di Lama dall’università il Pci ci ha pubblicamente
condannato». Papà si sente in dovere di giustificarsi. «Ci siamo
sentiti traditi. Una parte dell’ala dura degli autonomi decise che
era giunta l’ora di “alzare il livello dello scontro”, ossia di
passare alla lotta armata. Da allora l’Autonomia si è avvicinata
alle posizioni dei gruppi terroristici che si stavano formando. Molti
entrarono in clandestinità, alcuni entrarono nelle Br, tanti altri
nei NAP che agivano all’interno delle carceri, dove molti autonomi
furono rinchiusi».
Mi
sembra tutto così assurdo. «Mamma che diceva?», chiedo.
«Lei
viveva in un mondo tutto suo. Diceva che una volta preso il potere
anche i rivoluzionari cessano di essere tali per diventare
amministratori. L’ho letto pure da qualche parte sul diario».
Riesce subito a trovare la pagina alla quale si riferisce.
«Mai
farei la lotta armata pur condividendo le motivazioni che hanno
spinto tanti miei compagni a farlo. Se alle manifestazioni qualcuno
usa la pistola non lo accetto, ma capisco e appoggio in tutto la
rivolta contro un certo modo di gestire la società che non tiene
conto della società stessa. Per me l’impulso è più forte delle
regole, ma la compassione più potente della ragione. Io ho fiducia
nell’uomo e l’umanità nuova sarà formata da coscienze capaci di
autogoverno interiore e sociale in cui non avranno più posto
gerarchie, autoritarismi, violenze. Se solo questo ottimismo, questa
fiducia fosse anche quella dei terroristi…
Papà
chiude il diario. Guarda in cielo. «L’umanità nuova, l’anarchia»,
dico io mentre mi viene in mente uno strano gioco che s’era
inventata mia madre per me. L’aveva chiamato "l’anarciccia".
Su un foglio aveva scritto che io ero una bambina fortunata perché
libera di fare tutto quello che volevo, a condizione però che avessi
rispettato la libertà degli altri, avessi aiutato chi aveva bisogno,
avessi studiato perché solo la cultura rende liberi. Ogni volta che
mi comportavo male perdevo dieci punti libertari, ma li potevo
recuperare se facevo qualcosa per qualcuno in difficoltà. Per tutta
la vita ho cercato di non perdere i suoi punti. Anzi ho provato ad
accumularne sempre di più, perché così mi sentivo la sua
"anarciccia". Forse può sembrare un gioco stupido, ma
credo che mi abbia fortemente aiutato nella vita. Mi ha dato una base
forte sulla quale costruire la mia personalità, il mio carattere.
Papà
invece mi ha insegnato ad amare le cose belle. Lui era un gallerista,
è un gallerista. Fin da piccola ho avuto modo di maneggiare opere
d’arte, ho conosciuto artisti importanti, ho visto mostre che hanno
fatto storia. Viaggiava tantissimo, per settimane non lo vedevamo, né
lo sentivamo. Mamma mi diceva che stava fuori per lavoro e io ci
credevo visto che ogni volta che ricompariva mi portava tanti regali.
Però mia madre piangeva, a volte, la notte. Se glielo chiedevo mi
diceva che papà le mancava. Zia Moira sosteneva che papà avesse
un’altra. Mamma la chiamava "la stronza". Due anni dopo
la sua morte lui se l’è sposata, ma io non le ho mai permesso di
prendere il posto di mia madre. Piuttosto che stare con lei preferivo
non vedere neanche mio padre e così ho vissuto per la maggior parte
della mia adolescenza con le zie. Papà, però, ha sempre trovato il
modo per non interrompere quel rapporto che avevamo. Di questo devo
dargliene atto. S’inventava viaggi da fare solo con me, mi veniva a
prendere a scuola e mi portava con lui in galleria, facevamo insieme
i compiti, veniva a dormire da zia Carla quando ero malata. Ora so
che non è stato facile neanche per lui. Aveva perso mamma e non
poteva rischiare di perdere anche me. Lo abbraccio forte. Ho un nodo
alla gola e ho voglia di piangere.
«Amore
mio, ti chiedo scusa», dice papà. A questo punto non mi trattengo
più. Le lacrime mi annebbiano la vista poi un pianto silenzioso e
inarrestabile prende il sopravvento. Un lampo squarcia le nuvole.
«Dobbiamo andare a casa prima che inizi il temporale», gli dico
alzandomi in piedi tendendogli le mani per aiutarlo.
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