«Buongiorno,
amore». Un buon profumo di caffèlatte mischiato a quello della sua
pelle mi hanno svegliato prima ancora delle parole di mio padre. Ma
faccio finta di niente. Voglio ancora godermi il sonno e cercare di
ricordare i dettagli di quello che ho sognato. Ero con mia madre, a
casa a Roma, e dovevamo mettere a posto i miei libri perché non
trovavamo più il “Piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry.
Le serviva perché aveva bisogno di copiare una citazione.
«Ecco
il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore.
L’essenziale è invisibile agli occhi», dico ad alta voce.
«Che
dici?», chiede papà mentre mi scompiglia i capelli.
«Il
Piccolo principe», rispondo mettendomi a sedere sul letto. Bevo
tutto d’un fiato quel bicchierone che mi ha portato. «Ieri sera
sono crollata, ma adesso mi devi dire tutto».
«Intanto
alzati e vestiti», dice mentre esce dalla stanza. I diari di mamma
sono di nuovo al loro posto, sulla scrivania. Li prendo e mi rimetto
nel letto. Cerco la data del 16 marzo.
«Giovedì
16 marzo 1978. Hanno rapito il presidente della Dc Aldo Moro. Sono
andata a via Fani e ho provato un orrore difficile da descrivere a
parole. Le guardie stavano facendo i rilievi. Steso sull’asfalto
Raffaele Iozzino, con la pistola a due passi. Dentro una 130 c’è
Domenico Ricci riverso, quasi adagiato sul corpo di Oreste Leonardi,
il capo scorta, con il volto coperto di sangue. Aveva 42 anni, da 20
anni era l’autista di fiducia di Moro. Giulio Rivera è stato
crivellato di colpi e sta nella macchina che seguiva Moro. Ci sono
bossoli per terra, una borsa, forse quella del presidente Moro, un
berretto che sembra quello dei piloti dell’Alitalia, un caricatore
di un mitra. C’era anche Luca. Ho pensato che chiunque avesse
sequestrato Moro aveva previsto che a via Fani non doveva esserci
scampo per nessun altro se non per l’onorevole. Sembra un miracolo
il fatto che non sia morto anche lui in mezzo a tutto quel fuoco. I
terroristi hanno dimostrato una capacità di colpire superiore a
qualunque previsione. La loro efficienza è fuori discussione, al
contrario delle guardie che non esitano a uccidere manifestanti
impotenti, che non si fanno scrupoli a picchiare donne che
protestano.
Al
giornale mi hanno chiesto di sentire quello che diceva la gente sul
posto. Una signora, che aveva seguito le fasi finali dell’agguato
mi ha raccontato che Moro camminava al fianco di un giovane, ma
tranquillamente, non in modo concitato; che era stato caricato in una
128 blu scuro che è scomparsa verso via Trionfale. Qualcuno parla di
due terroristi a bordo di una moto. Qualcun altro dice di aver
sentito parlare una lingua straniera. Forse il tedesco. Mi hanno
segnalato dei guasti alla linea telefonica in tutta la via e
dintorni. Per il resto c’è in giro una gran paura. Quando sono
tornata al giornale mi hanno detto che l’altro agente della scorta
dell’onorevole Moro, Francesco Zizzi, è morto al Gemelli. E che le
Brigate Rosse hanno rivendicato il sequestro».
«Non
si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi»,
ripeto a me stessa.
Continuo
a leggere. Questa pagina non è datata. Presumibilmente è stata
scritta qualche giorno dopo.
«Ciccio
mi ha fatto venire qualche dubbio. Non so come ha trovato un’agenzia
del 15 marzo di Op alquanto enigmatica: «Mercoledì 15 marzo il
quotidiano “Vita sera” pubblica in seconda pagina un necrologio
sibillino: “2022 anni dagli Idi di marzo il genio di Roma onora
Cesare 44 a.C.-1978 d.C.”. Proprio le idi di marzo del 1978 il
governo Andreotti presta il suo giuramento nelle mani di Leone
Giovanni. Dobbiamo attendere Bruto? Chi sarà? E chi assumerà il
ruolo di Antonio, amico di Cesare? Se le cose andranno così ci sarà
anche una nuova Filippi?». Che vuol dire? Ciccio l’ha interpretata
così. Aldo Moro come Cesare. Aldo Moro viene rapito proprio mentre
si sta recando a tenere un discorso alle Camere… proprio come
Giulio Cesare che si era recato in Senato.
Non
solo. Ciccio mi fa notare che Renzo Rossellini, un’ora prima
dell’agguato di via Fani, ovvero poco dopo le 8 del mattino del 16
marzo, da Radio Città Futura, ha dato la notizia di un’azione
terroristica compiuta ai danni del Presidente Moro. E ancora: alcuni
mesi prima del rapimento, dal Carcere di Matera il detenuto Salvatore
Senatore avrebbe fatto arrivare al Sismi l’informazione circa il
possibile sequestro di Aldo Moro.
Ne
ho parlato con Luca cercare una giustificazione a queste “cose
strane”. Lui sostiene che non era un gran segreto il fatto che le
Br volessero alzare il tiro e colpire il cuore dello Stato. Anche il
fatto che sia stato scelto Moro non era del tutto inimmaginabile. Già
nel 1967, mi ha detto Luca, il periodico "Nuovo mondo d’oggi"
pubblicò un articolo nel quale veniva riportata la testimonianza di
un certo Roberto Podestà, che raccontò come nell’estate del 1964
era stato incaricato, in caso di attuazione del “Piano Solo”, di
guidare il commando che avrebbe dovuto rapire e uccidere l’onorevole
Aldo Moro addossando le responsabilità agli uomini della sinistra.
Nel 1968 la pubblicazione "Il Bagaglino", vicina alle
posizioni della destra, per celebrare il primo anno di attività
della compagnia romana di avanspettacolo, aveva divulgato un articolo
nel quale l’autore Pier Francesco Pingitore aveva descritto il
tragitto mattutino del presidente del consiglio Aldo Moro citando
anche via Fani e ponendosi una serie di domande del tipo: la vita del
presidente Moro è al sicuro? È ben vigilata la sua incolumità
personale? Vengono adottate tutte le misure necessarie a preservare
la sua persona da possibili attentati?
Perché
proprio quella mattina? Luca non ha saputo trovare una risposta
convincente ».
«Ti
vuoi sbrigare?», urla papà dall’altra stanza.
«Arrivo,
arrivo, ancora un attimo, papà», rispondo sfogliando le ultime
pagine del diario.
«Riflessioni:
in via Fani sembra non ci sia stato alcun alcun tamponamento violento
tra la 128 bianca e la 130 blu; uno sguardo alle foto pubblicate sui
giornali e ai filmati che stanno mandando in onda in questi giorni
permette di vedere che i paraurti delle due auto sono perfettamente
intatti, e che sull’asfalto non vi è alcuna traccia di frenata.
Poi, stando all’autopsia effettuata sui corpi dell’autista della
130 blu del presidente Moro e del caposcorta Leonardi che gli sedeva
a fianco (sulla Fiat 130 blu c’erano l’autista e il caposcorta
davanti, e Moro da solo dietro), entrambi sono stati uccisi da colpi
che provenivano da dietro e che li hanno “attinti”, come si dice
in gergo, alla schiena. A entrambi è stato poi sparato alla testa un
colpo di grazia. Ciò significa che gli occupanti della 128, che
precedeva la 130, sono scesi ognuno dal proprio lato, si sono diretti
verso la 130, sono giunti all’altezza delle portiere posteriori, si
sono girati e hanno fatto fuoco verso i due occupanti i sedili
anteriori, colpendoli alla schiena con un tiro incidente di circa 45
gradi diretto in avanti, la sola modalità che desse la certezza
assoluta di non colpire Moro e di non colpirsi a vicenda (visto che
sparavano da entrambi i lati della vettura).
Sulla
base di questi fatti, ritengo che l’ipotesi più logica e, a mio
avviso l’unica che spieghi razionalmente i fatti, sia che la famosa
128 bianca con targa diplomatica fosse in realtà parte integrante
del corteo delle auto di Moro. Qualcuno potrebbe aver comunicato a
Leonardi che, quella mattina, un’auto civetta della polizia (“la
riconoscerete facilmente, ha targa CD”) si sarebbe unita al corteo
lungo il tragitto e li avrebbe guidati lungo un percorso sicuro (così
si spiegano la scelta altrimenti cervellotica di usare una targa
diplomatica, che sembra fatta apposta per attirare l’attenzione, e
la certezza matematica del commando che Moro sarebbe transitato
proprio in via Fani). Questo “qualcuno”, ovviamente, non poteva
che essere un funzionario di grado sufficientemente elevato da
potersi permettere di dare indicazioni al caposcorta del Presidente.
A questo punto azzardo una ricostruzione della scena: la 128 si ferma
allo stop e, ordinatamente, frenano e si fermano anche la 130 e
l’Alfetta bianca con i 3 poliziotti a bordo. L’uomo e la donna
scendono e si avviano tranquillamente verso la 130; Leonardi non ha
nulla da temere, i due, per quel che ne sa, sono poliziotti (può
anche essere che fosse stato comunicato a Leonardi la necessità di
trasferire Moro sulla 128 per maggiore sicurezza, data la delicatezza
e la tensione di quel giorno). Una volta giunti all’altezza delle
portiere posteriori, con Moro forse pronto a scendere non appena i
due gli avessero aperto la portiera, accade l’incredibile: i due
finti poliziotti estraggono armi corte e con due brevi raffiche quasi
a bruciapelo uccidono i due carabinieri. È solo a questo punto che
sbucano fuori, gli altri terroristi, magari camuffati con quei
berretti da aviere corrono verso l’Alfetta e sparano senza alcuna
remora lunghe raffiche dal lato sinistro, tanto a bordo ci sono solo
poliziotti e Moro è già inerme. Il famoso super-killer, poi, come
riportato dai testimoni, fa un balzo per portarsi quasi dietro
l’Alfetta, in modo da colpire l’unico poliziotto che è riuscito
a reagire ed è sceso dal lato destro. Verrà infatti ucciso da una
raffica alla schiena. Ciccio dice che le modalità dell’azione
sono la fotocopia del sequestro Schleyer del 1977. Dobbiamo
controllare».
In
effetti Moro non ha mai parlato nelle sue lettere della scorta
uccisa. Parla di prelevamento lamentandosi nel contempo che, per
motivi economici, non ha potuto avere una scorta migliore che lo
proteggesse. Volto pagina e trovo un altro articolo di “A”
firmato da
Luciano
Lanza. «Fino a ieri», c’è scritto, «c’eravamo cullati in una
illusione: scrivere su un giornale anarchico è un atto libero, non
condizionato dal potere, anzi contro il potere e la sua logica. Oggi
invece siamo costretti a "prendere posizione" sul rapimento
di Aldo Moro, perché i mezzi di (dis)informazione trattano
prioritariamente questo argomento. Diciamocelo francamente, se non
fosse per l’ossessionante campagna, non troveremmo così importante
occuparci di un democristiano privato della sua libertà o di cinque
poliziotti che hanno perso la vita, considerate le migliaia e
migliaia di reclusi e l’ancor più lunga sequela di morti sul
lavoro o di uccisi da un "poliziotto che inciampava".
Invece siamo costretti a scrivere su di un fatto che si svolge
all'interno di un conflitto tra B.R. e classe oggi dominante senza
nessun coinvolgimento effettivo degli sfruttati1.
Note
1
L'articolo di Lanza
segue così: "I due poli dello scontro, infatti, non desiderano
per nessuna ragione una partecipazione attiva delle masse, ma
ciascuno, con i mezzi che ha, ricerca il consenso o la
legittimazione per il ruolo direttivo che vorrebbe svolgere o che
svolge sulla società. Se per la D.C. e per gli altri partiti
questo è assiomatico, per quanto concerne le B.R. potrebbe
sembrare, quantomeno, azzardato. Non è così. Le stesse B.R. hanno
a più riprese spiegato che le loro iniziative non devono essere
considerate "azioni esemplari" cioè azioni compiute, sì
da una minoranza, ma che vuole indicare alla maggioranza degli
sfruttati le vie per la loro liberazione e che essi stessi dovranno
portare avanti in prima persona. Si tratta invece di azioni facenti
parte di una strategia che mira a mettere in crisi lo "stato
borghese" o in termini più aggiornati lo "stato
imperialista delle multinazionali" per accelerare l'evento
rivoluzionario che permetta di instaurare una società diretta dallo
"stato operaio", di cui le B.R. sono la prefigurazione
armata e partitica. Inquadrata schematicamente la meccanica della
strategia delle B.R., dovrebbe risultare più semplice adottare
valutazioni di merito, anche se prevediamo che già molti saranno
insorti per la sbrigativa liquidazione dei "compagni delle
B.R.". Ma il sentimentalismo gioca spesso brutti tiri e, fatte
le debite e importanti distinzioni, le B.R. ci sono estranee come
tutti gli aspiranti al potere. Questa estraneità, comunque, ci è
d'ausilio e non di ostacolo per valutare l'enorme capacità di
coinvolgimento dei mass-media. L'obiettivo esplicito era ed è
isolare ancora di più le B.R. dai suoi sostenitori esterni e dalla
popolazione in generale. I notiziari martellanti, le foto dei morti,
le interviste ai politici e ai passanti, le "considerazioni"
degli intellettuali, la reinvenzione della guerra partigiana ad uso
e consumo del "cittadino 1978" partecipe dello "stato
democratico nato dalla resistenza", le tavole rotonde... in
definitiva un enorme apparato si è mosso in sincronia: tutto doveva
essere utilizzato per creare artificialmente un clima di tensione.
Un esempio di come si siano mossi i gestori dell'informazione ci è
dato dal completo stravolgimento delle dichiarazioni rilasciate al
Congresso delle Federazioni Anarchiche a Carrara e al Convegno di
Studi su "I Nuovi Padroni" a Venezia. Poco importava la
denuncia fatta dai compagni del terrorismo dello stato, gestore
legalizzato e istituzionale della violenza, di fronte alla quale
quella delle B.R. è ben poca cosa. L'ordine di scuderia era
condannare le B.R. e così si sono capovolti i significati per
utilizzare perfino gli anarchici in questa "crociata
antiterrorismo". Una crociata che ha visto nel P.C.I. e nei
sindacati uno dei sostegni più significativi. I sindacati hanno
messo sul piatto della bilancia tutto il loro prestigio per creare
una vasta mobilitazione popolare. Centinaia di migliaia di
lavoratori sono scesi in piazza, sono ricomparsi gli striscioni
democristiani, tutti uniti, tutti insieme a difendere le
istituzioni. E l'immagine non viene certo contraddetta dalle frange
dissenzienti che comunque hanno dovuto entrare nella logica di
quello sciopero e di quello spettacolo, così chiaramente
qualificato, per esprimere la propria diversa identità. Il P.C.I.
poi ha colto l'occasione (portavoce il solito Pecchioli) per
scatenare la caccia alle streghe che si nascondono nelle fabbriche.
Pecchioli è stato esplicito: bisogna eliminare dalle fabbriche i
sostenitori dei brigatisti. Una dichiarazione gravissima che si
tradurrebbe, se attuata, in numerosi licenziamenti per
"sterilizzare" i centri della produzione e del lavoro da
tutte quelle voci di opposizione e di dissenso al patto sociale e
all'egemonia comunista. Si vuole ghettizzare ancora di più le forze
rivoluzionarie. La strategia del P.C.I., unita alla sua capacità di
mobilitazione, è un elemento che troppo spesso viene sottovalutato,
perché se il boicottaggio della C.G.I.L. allo sciopero indetto dopo
l'assassinio dei compagni Iannucci e Tinelli non è passato, lo si
deve in buona parte anche al dissidio sorto tra la U.I.L. e la
C.I.S.L. e non solo alla capacità di azione autonoma degli operai.
Resta comunque il fatto che l'attacco contro tutta
l'estrema-sinistra-non-ragionevole procede e si sviluppa secondo
tempi e modalità determinate dal Partito Comunista che utilizza
tutti gli avvenimenti per questo suo fine, tutt'altro che
secondario. A questo punto si impone una riflessione che, pur
partendo da tutti questi eventi, assume connotazioni più generali:
il problema della comunicazione. Il divario di possibilità tra i
mezzi che il potere può utilizzare e quelli dei gruppi
rivoluzionari si è accresciuto a dismisura. I mass-media creano le
notizie e l'opinione, tutto quanto non rientra nella logica del
sistema viene ignorato o stravolto. L'azione dei gruppi
rivoluzionari incontra così un ostacolo ancora più forte, che,
unito alla povertà dei mezzi alternativi utilizzati, rende quasi
inintelligibile il messaggio. La lontananza, anche psicologica, tra
rivoluzionari e interlocutori aumenta vertiginosamente, tanto che
per poterli raggiungere bisogna, di necessità, utilizzare i canali
del regime, che comunque riescono sempre a utilizzare per i propri
fini anche i fatti che si pongono in antitesi a questi. Anche le
B.R. con la loro azione clamorosa si pongono nella situazione
oggettiva di "essere notizia", i mass-media non li
ignorano, anzi sono costretti a dedicare alle loro azioni, ai loro
militanti, alla loro ideologia, ai loro comunicati, pagine e pagine,
ma proprio in quello stesso momento scatta l'operazione di
riutilizzo e di distorsione, che con una bene orchestrata campagna
neutralizza il messaggio che le B.R. intendevano lanciare. È
evidente che il porsi come "elemento di notizia" non è
sufficiente perché pur rompendo il muro del silenzio non ci si può
assicurare la corretta gestione dell'informazione. Anzi quasi sempre
il risultato è l'opposto di quanto ci si proponeva. E allora?
Evidentemente non abbiamo la risposta bella e pronta, sciogliere
questo nodo gordiano è impresa quanto mai difficile, tant'è che il
taglio netto operato dalle B.R. non ha sortito gli effetti che esse
speravano, perché se è pur vero che lo stato è caduto, in una
certa misura, nel loro gioco, è anche vero che il restringimento
della libertà di azione viene interiorizzato in modo partecipe dai
cittadini e non viene vissuto come stimolo alla rivolta o
all'insubordinazione come gli strateghi delle B.R. amano credere.
Certo lo stato mostra ancor più il suo vero volto, ma i formatori
dell'opinione pubblica giocando su elementi emotivi e
pseudo-razionali riescono a giustificare l'involuzione autoritaria
presentandola come l'unico modo per “salvare la convivenza
civile”».
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